22 febbraio 2013

DIARIO MINIMO DA NEW YORK - 4 - Dushanbe, Brooklyn

È grande come Milano, ma qui a Brooklyn la popolazione è quasi il doppio. Dice che a Milano un sesto della popolazione è d'origine straniera, ma a Brooklyn questa è semplicemente la regola. Dice che nell'intera New York si parlano qualcosa come 800 lingue (e se lo dice il New York Times, citando imprecisati esperti, ci devi comunque credere sulla parola, come fanno tutti quelli che ne traducono spudoratamente interi articoli indicandolo a malapena). E tra i cinque distretti della grande città, Brooklyn è quello dove la diversità culturale è maggiore, ma dove ancora oggi è possibile trovare quartieri che sono delle vere e proprie isole etniche, impermeabili alla contaminazione che sta invece trasformando a pieno ritmo le aree di tendenza.
C'è un posto che rappresenta plasticamente il cambiamento che può arrivare dalla riqualificazione territoriale e dove questa contaminazione è visibile e scorre come un fiume che solo di tanto in tanto riesce a lasciar gli argini.
Cinese, arabo, spagnolo, indiano, russo, portoghese. Non sono le uniche, sono solo le lingue più comuni che senti parlare lungo il tragitto forzoso interno all'Ikea di Brooklyn, dove l'unica cosa che accomuna tutti è il pollo fritto con le patatine, che puoi mangiare a qualunque ora, come dimostrano le code interminabili che si formano il sabato pomeriggio davanti al ristorante. Non manca il salmone, ovvio, ma qui lo trovi anche nelle lasagne. Non ne ho la benché minima prova, ma il dubbio che gli americani mangino più pasta di noi italiani, quello ce l'ho da quando ho visto i "maccaroni and cheese" serviti come contorno nei diner.
Non è certo una sorpresa che ogni magazzino Ikea in giro per il mondo sia identico agli altri: un parallelepipedo su due piani che ti suggerisce sempre lo stesso passaggio tra i mobili e non vede di buon occhio che tu, unico salmone privo di cittadinanza qui dentro, lo possa percorrere in senso contrario. Però qui sembra esserci meno spazio per le rifiniture i metallo e più per il legno e la pelle marrone scuro, molto più in linea con il tradizionale stile newyorchese. Il negozio sorge sul terminal portuale di Red Hook, luogo immortalato da Marlon Brando nel "Fronte del porto". Le strade che conducono all'Ikea sono desolatamente vuote, nonostante gli alti ed anonimi condomini, qualche squallida tavola calda e qualche negozio dove quasi tutto dovrebbe costare 99 cent o poco più. Difficile immaginare che l'arrivo degli svedesi, quattro anni fa, possa aver trovato oppositori in un'area del quartiere dove il declino lo intuisci a prima vista. Perché se è vero che la chiusura forzata di quello che era ancora un attivo bacino di carenaggio non ha fatto venire meno la domanda di strutture simili nell'area compresa tra New York e il New Jersey (richiedendo alla comunità un investimento oneroso per trovare siti alternativi), allo stesso tempo risulta poco credibile che i timori dell'apertura di IKEA fossero legati non solo alla crescita del traffico automobilistico ma anche al calo dei valori immobiliari della zona. Se Red Hook ha visto la nascita della carriera criminale di Al Capone, ancora negli anni '90 era considerato dalla rivista Life uno dei peggiori quartieri di tutti gli Stati Uniti, la Capitale del Crack in America. Forse ora non è più così, ma a duecento metri dal negozio non c'è più anima viva, solo il vento gelido.
Dalle vetrate del ristorante si può osservare, in lontananza, la Statua della Libertà. Piccola, ma ben visibile quando il sole la colpisce. Si può vedere anche Lower Manhattan, con le sagome dei suoi grattacieli. Non lo so se la gente di New York ora si sia abituata e ci faccia meno caso; ma per chi, come me, era stato in questa città solo da turista giusto vent'anni fa, tornarci adesso per viverci, e non rivedere la sagoma delle Torri Gemelle, lascia una sensazione forte di vuoto allo stomaco. Su quel pezzo mancante sta sorgendo ora un nuovo grattacielo, il One World Trade Center. Sarà il più alto di New York e il terzo al Mondo, con i suoi oltre 540 metri. 1776 piedi, per la precisione, una scelta simbolica: l'anno della Dichiarazione d'Indipendenza americana, celebrata il 4 luglio.
Nei suoi negozi, Ikea vende anche grandi stampe fotografiche, grandi abbastanza per coprire un muro con le immagini della Torre Effeil, degli autobus di Londra, del ponte di Brooklyn. Oltre ad una gigantografia del Flatiron, il pionieristico grattacielo a forma di fetta di torta che separa Broadway dalla Fifth Avenue, c'è anche in vendita una fotografia di Lower Manhattan senza le Torri Gemelle e con Ground Zero ancora privo dei futuri cantieri.
Lungo il corridoio che conduce ai bagni, è un viavai continuo di persone. Aspettando mogli, mariti, figli, fratelli, sorelle, amici, molti si fermano davanti alla grande stampa che rappresenta la mappa del Mondo. Non m'importa d'essere provinciale, mi basta trovare il puntino della mia Torino (anzi,Turin) e osservare che mancano città italiane ben più famose. Qualcuno ha tracciato una croce sul Japan della scritta "Sea of Japan". Non ho capito se per segnalare un errore o per polemica nazionalista. Anche gli abitanti di New York sono orgogliosi di trovare la loro amata città sulla mappa: a forza di toccarlo, il punto di corrispondenza e il nome sono quasi completamente sbiaditi.
Vedo arrivare una giovane coppia. Lei è alle fasi finali della sua gravidanza, lui la tiene sottobraccio. Non so perché, ma guardandoli penso subito che siano russi. Li sento parlare, e ne ho quasi la certezza. Si fermano anche loro davanti alla mappa. Lui tocca un punto, sorridono insieme e si allontanano. Mi avvicino alla mappa. Pure loro chiameranno Brooklyn casa, ma voglio capire dove sia rimasto il cuore. Ho sbagliato di poco: Tagikistan.


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