24 gennaio 2016

Anno nuovo, e solo quello [ NYC #57 ]

Hai voglia a dire che non s'invecchia

YMCA Park Slope, Brooklyn

"Can I borrow you?". Si, sta proprio rivolgendosi a me. A parte lui, sono l'unico maschio adulto presente. Per il resto, solo mamme, amiche delle mamme e babysitter. Me ne sto tranquillo a bordo di uno dei tre campi da basket ospitati sotto la grande volta della YMCA di Park Slope. Quello che un tempo era un arsenale, adesso è una delle più grandi palestre di tutta Brooklyn. Questo giovedì l'allenatore deve fare a meno del suo assistente. 12 bambini, tra cui anche il Piccoletto di casa Spedalieri, sono pronti a giocare a football. Ognuno stringe la propria palla come fosse oro. Io adesso sono esattamente al centro del campo e loro mi puntano: sarò l'ultimo ostacolo prima del touchdown. Sono un adulto rispettabile, loro sono solo dei bambini che smaniano per giocare e tra questi c'è pure mio figlio. Primo pensiero? Col cacchio che li faccio segnare.

Ci metto davvero poco a rinsavire. Troppe mamme mi stanno fissando, qualcuna sorride e qualcun'altra ha anche quegli occhi benevoli che non guastano mai per drogare un ego già fuori misura. Che figura ci farei se spezzassi le manine dei loro figlioli? Fischio dell'allenatore, via. Scattano uno alla volta. Quando arrivano davanti al sottoscritto, che mima a ripetizione un'improbabile tentativo di placcaggio, provano solo a scaraventarmi la palla addosso. Il mio Piccoletto usa il suo turno per fermarsi a qualche metro da me, come facciamo a casa, ed esibirsi in uno dei suoi lanci preferiti. Peccato che qui la palla abbia dimensioni e peso regolari, per cui viene fuori un tiro sbilenco che lo lascia a bocca asciutta. L'allenatore prova di nuovo a spiegare ai gagni che devono arrivare davanti a me, poi scartarmi e tirare dritto verso la meta. Ci riproviamo. Il risultato è che mi buttano la palla addosso con violenza rinnovata. Uno riesce quasi a colpirmi in faccia. La piccola carogna non pare comprendere gli insulti in italiano e credo che abbia scambiato la mia risata per genuina.

L'allenatore è testardo. Decide d'affiancarmi tre bambine per creare una vera e propria linea di difesa. Dico io: quei disgraziati con la palla non passano il sottoscritto senza averlo prima impallinato, vuoi che saltino un muretto di quattro esseri umani che messi insieme, me compreso, non arrivano a 60 anni d'età? Non so nemmeno come si dica "testuggine" in inglese, quindi rinuncio alle tattiche più guerriere. Punto all'uno contro uno. Mi giro verso una delle bambine e le dico: "lo vedi quel bambino con la maglia rossa?", indicando il Piccoletto, "Ecco, è lui che devi fermare!". Se un giorno il mio Piccoletto mi tirerà un pugno sul naso, avrò poco da sorprendermi. Una cosa è certa: quella bimba non lo ha mollato più e sembrava pure divertita.

Non avevo bisogno di diventare papà per intuire che stavo invecchiando, i miei capelli lo sapevano già, soprattutto quelli partiti per sempre. E sapevo che diventare papà avrebbe richiesto un ovvio surplus d'energia, cosa non sempre reperibile quando superi i 40 e tendi filosoficamente all'ozio. Tu alle sette di sera vuoi riposarti mezz'ora e lui invece vuole fare lotta greco-romana. Tu vuoi riportarlo a casa dopo l'asilo e lui vuole andare a giocare a palla, solo fino a quando non fa la prima spruzzata di neve e ti chiede d'andare con lo slittino al parco. Tu la domenica pomeriggio vuoi affondare ed entrare in simbiosi con il divano, lui vuole costruire la pista della metropolitana per tutta la casa. Tu dopo cena trovi le ultime forze per lavargli i denti e lui, dopo aver spaccato l'Universo, entra di colpo in catalessi, costringendoti ad un ulteriore sforzo per rianimarlo e farti obbedire. Mi mancavano giusto il suo allenatore e l'assistente latitante per capire che quel surplus non è in vista. Anzi, qui si avvicina il deficit, almeno a leggere il bollettino della settimana su mens sana in corpore forse.

Andare verso la Hudson Valley non mi richiede più l'uso del navigatore, così come viaggiare un po' ovunque per la città. Il senso dell'orientamento non delude mai e pure la prontezza di riflessi sembra in ordine, almeno a giudicare dai colpi di frusta che il resto della famiglia subisce durante le mie frenate senza preavviso. Questo non esclude che tre secondi di presunzione di troppo lascino la tua macchina proprio nella corsia che non vorresti prendere, quella da cui non esci più a meno di non rischiare un frontale col guardrail, corsia che invece di riportarti a Manhattan ti spedisce dritta su un ponte per il Queens, a pagare quegli 8 dollari di pedaggio che con cura avevi evitato all'andata. Nonostante la deviazione non desiderata, tutte le autostrade riportano a Brooklyn: andare a passo di lumaca a destra o a sinistra del East River non fa differenza, a parte per quei famosi 8 dollari.

Non è solo la mente a lanciare avvisaglie. Prima di riconsegnare la macchina ho giusto un'ora per correre senza la famiglia da Coluccio, il nostro rifornitore di pasta e caciocavallo a Bensonhurst. Quando arrivò a destinazione mancano solo 20 minuti alla chiusura. Sulla porta uno dei figli mi saluta e mi dice che ho tutto il tempo necessario per fare la mia spesa. Vicino al banco frigo un uomo sta già lavando il pavimento. Vorrei prendere una salsiccia e, allo stesso tempo, non intralciarlo nel suo lavoro. Lui accenna a spostarsi ma io gli dico di non muoversi, ché riesco lo stesso a sporgermi e prendere la salsiccia senza mettere piede dove il pavimento è bagnato. Appoggio la mano sinistra su uno scaffale dove si trovano tutti i tipi di frutta secca immaginabili. Non faccio in tempo ad appoggiare la mano che la mensola si stacca dallo scaffale, io quasi volo a terra mentre fichi secchi e quant'altro franano sul pavimento. Ammutolisco. Anche l'uomo ammutolisce, perché capisce che non può nemmeno insultarmi a meno di non voler salutare per sempre il suo lavoro. Arriva il figlio del padrone. Mi scuso a raffica e continuo a ripetere che sono davvero imbarazzato. Sorride e mi dice di non preoccuparmi, che son cose che capitano. Intanto iniziano a raccogliere da terra i fichi e a rimetterli nelle scatole. Insisto e spiego che è solo tutta colpa mia e non di chi stava lavorando. Provano a consolarmi, ma mi allontano mestamente, con un senso di colpa che m'ingobbisce. E con la certezza che, se tornerò qui a breve, di sicuro non comprerò fichi secchi per un po'.

23 gennaio 2016, bufera di neve su New York

Così ho capito che anche il mio fisico smania per dirmi qualcosa. Il fine settimana non è ancora finito, ma almeno lo è la bufera che per 24 ore si è abbattuta tra Washington e New York. Ieri me la sono cavata, perché il vento fortissimo ha suggerito di tenere la famiglia al caldo mentre io mi avventuravo nel quartiere per comprare qualcosa di dolce. Ma dopo più di sessanta centimetri di neve fresca, il Piccoletto stamane s'è fatto sentire. E gloriosa slitta è stata. Adesso tocca al mio glorioso divano.

 

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