"È un agente?", mi chiede fissandomi attentamente. Davvero non so che rispondergli. Capisco con un attimo di ritardo, quell'attimo che mi ha raggelato il sangue, che c'è stato un fraintendimento. "No, dicevo che ho l'iPad nella borsa. Che faccio? Lo lascio lì?". Ride. Tutto risolto. Va bene che la mia pronuncia non è ancora perfetta, ma non so per quale ragione abbia creduto, invece, che io avessi un un coltello con me. Si scusa per il malinteso e io tiro un sospiro di sollievo. Non sono affatto teso, figurati. Siamo solo all'ingresso dell'USCIS di New York, l'ufficio per l'immigrazione, e il poliziotto pensa che io abbia un coltello nella borsa. No, no, non sono teso. Per niente.
A Miami, per prendermi le impronte digitali, la fila era stata ben più lunga. Qui, dopo essere saliti all'ottavo piano ed esserci registrati agli sportelli dell'accoglienza, l'attesa è poca cosa. Aspettiamo seduti in un salone largo e lungo. Dobbiamo tenere le orecchie ben aperte per sentire il nostro numero, PA-135, perché il monitor che dovrebbe aiutarci non funziona. Funziona, invece, l'onnipresente televisore, sintonizzato su Fox News e sulle notizie della tragedia creata dal tornado a Moore, vicino Oklahoma City.