25 marzo 2019

Buongiorno, Mondo



Ore 5:03 am. Buongiorno Mondo.

A me ‘sta cosa che a Tokyo son già le sei del pomeriggio.

Il termometro dice che la primavera sta per arrivare anche a New York. Anche se fuori è ancora buio pesto, vedo in controluce la lancetta sul vetro della finestra e segna poco meno di dieci gradi. Si, non è una tacca su una colonnina. Ma una lancetta su un semicerchio, come fosse un tachimetro.

Una settimana fa, a Madrid, era già estate. Ma i catalani rompevano lo stesso i coglioni. Va bene manifestare per i prigionieri di coscienza, quelli no. Ma se vogliono la loro patria, fucili, mica bandiere. S’è mai vista l’indipendenza a carte bollate.

Stamattina mezz’America si sveglierà col mal di testa, l’altra metà dirà che l’aveva detto e che, anche se non ci sono streghe da cacciare, non ci sono nemmeno le favole con l’orco cattivo. Questo film va avanti da due anni e non se ne possono escludere altri sei. Satantango, al confronto, ‘na passeggiata. Beati in California, è ancora notte fonda, laggiù.

A Roma e Piombino è già mattino. Ma non così inoltrato.
Dei freschi cinquantenni si scambiano gli auguri, e mi guardano dall’alto.
Una volta, per gli auguri, dovevamo alzare la cornetta. Adesso abbiamo messaggi di gruppo, moderatamente criptati. Si staranno domandando perché rispondo alle quattro del mattino.

Sarà stata la pizza o i garlic roll. Ma ieri sera alle 8 ero già a russare.
Sul divano.
Disteso come Tutankhamen.
Quattro ore abbondanti di riposo assoluto, immobile.
A mezzanotte e mezza, il dubbio m’ha svegliato. “E mo’ che cazzo facciozzzzzzz...”.
Tre ore dopo, non avevo ancora risposta.
Ma dovevo pisciare.
Una volta in posizione eretta, ho pensato di trascinarmi fino al letto.
Buttato i vestiti da qualche parte, preso la maglietta sotto il cuscino.
Ho bofonchiato un ciao alla Ragazza Dai Capelli Rossi e ha bofonchiato un ciao di cortesia pure lei. Ci siamo dati una reciproca tastata sul braccio, tanto per escludere di sognare.
“Adesso mi addormento, adesso mi addormento, adesso mi addormento, adesso mi addormento, adesso mi addormento, adesso mi addormento, adesso mi addormento, adesso mi addormento, adesso mi addormento. Adesso. Mi. Devo. Addormentare. Dovrei. Fanculo”.

Cucina.
Prima di rivestirmi, apro il frigo.
Acqua gassata. Gelata. Trattengo un rutto da Scala Mercalli, giusto per non preoccupare i vicini.

Poltrona. Si, devo fare almeno il caffè.

Periodo in cui sono circondato da cinquantenni che cercano di trascinarmi dalla loro parte. Ma io resisto con le unghie. Fin qui, tutto bene. 
Fin qui, tutto bene.
Fin qui, tutto bene.
Fin qui, tutto bene...

Nei quaranta si sta bene.
Io, i cinquanta, non li voglio nemmeno immaginare.
Magari arriva l’insonnia.
E si porta appresso nuove responsabilità.
Responsabilità.
Responsabilitàahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahah!!!!!!!!


25 settembre 2018

Whatever


Se non ci fosse stato il semaforo, avrei fermato ugualmente la macchina e sarei sceso a fotografarla. Avevo anche pensato che avrei potuto rompere il ghiaccio con un banale “can I take a picture?” dall’accento quasi italoamericano per davvero e senza inutili “do you mind”.
Mi avrebbe preso per matto o, anche peggio, per un vecchio maniaco.

Non sarei mai riuscito a spiegarle che vivo in un posto dove è normale che a volte la gente ti rivolga la parola e poi il momento dopo se ne vada, senza sentire l’urgenza di doverne aggiungere altre. Ho fatto apprezzamenti sui cappotti di ragazzi che dopo un istante hanno tentato di sorridermi mentre invece fuggivo dalla stessa metropolitana oppure al supermercato ho ascoltato gente mai vista prima suggerirmi d’acquistare la scatola di biscotti a fianco di quella che avevo scelto io. Lo so, adesso sono tornato dove queste eccentricità son quasi molestie. Ma avrei potuto almeno dire alla mia perfetta sconosciuta che anni prima, nella piazza lì a due passi, ero sceso dalla macchina sempre in piena notte per aiutare tre perfetti sconosciuti sulle strisce pedonali a mimare Abbey Road.

Mentre aspettavo che la luce del semaforo diventasse verde, nel buio ingiallito dai lampioni del centro avevo visto risaltare le sue scarpe bianche e le gambe incrociate a formare una specie di P sbilenca. Ma quello che davvero mi aveva attirato erano le enormi cuffie per la musica e il fatto che stesse smanettando sul suo telefono. E che tutto attorno a lei non ci fosse un’anima che fosse una, e non un suono. Magari lei stava scrivendo a qualcuno, oppure sfiorando delle fotografie oppure ancora cercando una canzone. Poco importava. Eravamo le uniche due presenze in strada nel vuoto della notte. Lei ferma in un angolo dove c’è un negozio che nemmeno a farlo apposta si chiama proprio “Punto Notte”, e non vende biancheria intima o daiquiri ma coperte e lenzuola.

Per me era lei che rendeva perfetto quel quadro di Torino, non il palazzo barocco illuminato al fondo di una delle rare vie che non si è piegata alla mappa ortagonale dei pratici militari romani.
Alla fine non sono sceso dalla macchina, e non solo perché il mio telefono era invece da ore privo di vita. Avrei rovinato non solo il suo momento, ma soprattutto il mio. Ho anche pensato che il mio, di momento, fosse proprio speciale. Stavo iniziando in quasi solitaria la mia traversata di ritorno nell’unico mare che ho sempre conosciuto.

Per rientrare a Santa Rita non c’era alcun motivo di deviare prima ad est lungo la via che celebra il più importante dei quattro fiumi cittadini, quello che noi torinesi (anche quelli espatriati da tempo) condividiamo forzatamente con quelli che si definiscono padani mentre noi ci siamo sempre sentiti isolatamente montanari o almeno collinari. Ma via Po, a meno di non essere solo maniaci della strada sempre più corta, è l’unico fiume legittimato a portarti davanti al faro di questo mare. E io, di fronte alla Mole spenta, ho pensato che potevo portarle il mio rispetto in un modo solo. Fermandomi in mezzo alla strada, e spegnendo i fari della macchina.

Credevo di ricordarmi tutte le rotte del mio mare, e mi son dovuto ricredere. Non tanto perché ho visto alberghi dove una volta poteva esserci solo l’ennesimo anonimo palazzo ottocentesco, Gramsci o non Gramsci. O perché nel mezzo di una piazza che non era mai stata tale, e che le madamine odiavano per il suo parcheggio sotterraneo sovrastato da colline squadrate artificiali, adesso c’è una birreria che distribuisce e riceve amore. Ma perché ho dimenticato che in centro le aree pedonali hanno ridisegnato dove puoi spingerti con la tua nave. Così, nella cappa della notte, e nella speranza di non trovare la guardia costiera con la fiamma sul cappello, ché poi mia madre una multa presa mentre navigavo con la sua macchina non l’avrebbe digerita, sono andato contro la corrente. Giusto solo per evitare quei tre isolati che mi avrebbero allontanato per qualche impaziente minuto dalla mia rotta verso sud. I carabinieri, alla fine, li ho incrociati poco dopo. E ho pure dato la precedenza per non perdere la mia patente nautica.

Forse non sarà come la città che non dorme mai, la mia Torino. E in un qualunque martedì notte che è già primissimo mercoledì mattina le macchine per le strade sono proprio un’eccezione anche per la città dell’auto. Ma dal tuo specchio retrovisore possono sbucare quattro ragazze in bicicletta, in fila orizzontale, a far la gara come Baronchelli e Aldo, Giovanni e Giacomo. Io ho accostato a sinistra e mi son fermato. Volevo sbirciare chi avrebbe vinto al photo finish  prima che il mio semaforo fosse di nuovo diventato verde.

Non ci sono solo silenzio e rotte inconcludenti in questo mare notturno. C’è anche la voce registrata di Mixo, quella di una vita, e una “soft summer breeze” che “makes me think of my baby I left down in New Orleans”, anche se la mia non si chiama Magnolia e mi aspetta in una diversa New. A inizio serata, sulla stessa radio il cui nome non si capisce mai se prenda a pugni l’inglese o imiti una stazione di musica sudamericana, c’era stata un’orrenda copia dei Led Zeppelin proveniente dal Michigan e non avevo capito il nesso con la voce rassicurante di Luca de Gennaro. Boh, whatever. Ma whatever per davvero. Perché non ci riesco nemmeno più a capire come si faccia a nominare una meravigliosa trasmissione radiofonica con una parola che io sto imparando a usare solo per dire che non me frega niente o per mandare qualcuno a farsi fottere.

Poco importa. L’aria inizia a farsi fresca e la colonna sonora meno lineare di sempre mi porta verso quello che spero sia l’unico igloo di pietra al mondo con i neon cardinali.

Importa poco. Mi basta solo una scusa per rallentare la mia traversata.

03 aprile 2018

Viva la Globalizzazione, soprattutto se mi porta i savoiardi con il caffè alla fine del primo tempo


Ho finito l'avanzo di parmigiana di melanzane. Adesso potrei mangiare chorizo e manchego all’infinito, con quell’avanzo di pane raffermo che è da ieri che aspetta lì in cucina.
Invece li metto da parte. 
Solo per un attimo, non facciamo scherzi.

Mi alzo e vado a recuperare una lattina di Krombacher in frigo. A meno di non trovare un’offerta sulla mia birra preferita, quella Indian Pale Ale che fanno nel Bronx, una Pilsner tedesca è pur sempre la scelta più economica. Anche quando nel quartiere la tua bodega preferita è gestita da due fratelli musulmani. Nel senso che sono musulmani e hanno un legame di sangue molto stretto. Il loro senso per gli affari, e poi per le bollette da pagare e per i bambini da mandare a scuola è molto più forte delle raccomandazioni religiose in tema di commercio e alcool.

Aprendo l’armadio, stamattina, avevo solo due scelte: la felpa del Toro o quella dei Nets? Non sia mai, una camicia.
Vero che il nero mi sfila ed è pure il colore non ufficiale di Brooklyn. 
Ma col granata faccio sempre la mia dannata figura.
Mannaggia, ché quaggiù manco sanno dell’esistenza del Toro, non fosse per il sottoscritto che ogni volta punta il dito sullo stemma della sua felpa quando parla con qualcuno: “You see, man? Torino, my native town! My soccer team! What? Juventus? Yeah… I know… fuggedaboutit”.
Non parlo quasi mai delle Olimpiadi Invernali, anche se qui nevica almeno quelle dieci volte ogni inverno.
A che ora inizia Juve-Real?

Via Veneto nelle orecchie.
No, non il traffico.
Quando stavo a Roma non avevo troppe ragioni per andarci. Diciamo pure che potendo, la evitavo come tanti romani. Si, esatto, proprio come i miei nuovi concittadini fanno con la loro piazza di paese più famosa del Mondo. La gggente fa migliaia di chilometri per andare a vederla, con tutte le luci e i pupazzi e le piccole tette colorate, e qui i newyorchesi la schifano. La gggente sta troppo male.

Conto alla rovescia.
Adesso nelle mie voluminose Fostex TX-1, cuffie Made in Japan, c’è una band di tizi francesi, che canta in italiano e il cui nome sembra quello di una famosa città dell’Arizona. Mi sa che è all’araba fenice che pensavano quando dovevano darsi un'identità.
Di certo amano la nostra adorata Italia.
La adorano pure loro, perché è un’Italia ideale. Insomma, sanno che non esiste.
“Senza te, senza te, senza te”. 
Tu hai mai sentito parlare di Via Venéto? VenÉto?? No. Appunto.
Ma loro, i francesi di Phoenix, pare che la vendano a tutto il Mondo. Quello stesso che crede di trovare l’America in Times Square. E la vendono a forza di centesimi ad ogni passaggio sul più famoso sito svedese di streaming musicale. Chi non pensa alla Svezia quando vuole comprare una cucina o un po' di pop elettronico romantico? Al diavolo le Marche, figurati Sanremo.

Adesso la musica ha lasciato spazio ad una telecronaca in spagnolo, dall'Allianz di Torino. Non riesco nemmeno a pronunciarlo, sono fermo al Delle Alpi, se non al Comunale. Mai arrivato nemmeno all'Olimpico, se è per quello.

Con quella rovesciata alla Juve, secondo me Cristiano Ronaldo ha stracciato per sempre anche le mutande di David Beckham. Però mentre il secondo riesce a farsi uno stadio e una squadra di calcio a Miami con il suo compagno d’affari boliviano, il portoghese di Madrid deve accontentarsi di fare milioni mostrandosi in mutande. Io e le mie maniglie dell’amore non potremmo mai farlo, anche se ho il sospetto che diventeremmo virali pure noi se ci beccassero in mutande bloccati fuori dalla stanza di un motel.

Sono troppo vecchio pure per tifare contro la Juve. 
Non ci riesco più. 
Vivo in una città dove i ragazzini indossano invariabilmente la maglia dei Giants o quella della... si, cazzo, quella della Juve. 
Mi sembra pure un po' patetico tifare contro, soprattutto se la tua squadra non vince più un derby a memoria d’uomo. FVCG, vecchio di sicuro.

Nonostante le assonanze, qui non tifo per i Red Bulls. Sempre e solo City. Chi, se non Sheikh Mansour bin Zayed Al Nayah, poteva comprarsi una squadra di calcio a Manchester e poi una in America per farla giocare nello stadio di baseball più famoso al mondo, quello degli onnipresenti cappellini con la N e la Y? Il nome di Mansour l'ho scritto di getto, mica ho fatto copia e incolla da Wikipedia.

Prima di passare ai savoiardi e al caffè, apro di nuovo il frigorifero, tanto per essere sicuro che i miei fianchi si sentano davvero amati e sprigionino amore pure loro. La prova costume per Coney Island è giusto questione di giorni.
C’è un avanzo di pizza, nel frigo.
Ci penso su.
Ah, a proposito di pizza.
Inizio a crederci pure io. 
L’avranno pure inventata a Napoli.
Ma la pizza migliore al mondo si mangia a New York. Soprattutto quando la fanno gli egiziani.

29 giugno 2016

IMPERIALE

L'Impero Ottomano, l'Impero Britannico e quello di Gianfranco Bianco



Per le nostre vacanze d'agosto in Italia avremmo anche potuto scegliere di fare scalo all'aeroporto di Istanbul. La Torino che dice di guardare al Mondo, quella della Fiat che si è letteralmente mangiata la Chrysler (anche se i torinesi e gli italiani tutti non lo capiranno mai), non ha un collegamento diretto con New York, e nemmeno con Detroit, se è per quello. Il governo americano da mesi sconsiglia ai suoi cittadini di andare in Turchia, troppo pericolosa, a rischio continuo d'attentati. Un Paese spezzato in due dall'ultraconservatore Erdogan e in cui la guerra civile pare non essere un orizzonte così improbabile. Un'amica italiana che vive ad Istanbul da 8 anni mi ha scritto poche ore fa che è tristissimo vedere da mesi le zone turistiche svuotarsi. Istanbul non è solo una delle città principali d'Europa, è anche uno degli scali più importanti al Mondo. Quindi poteva esserci chiunque di noi all'aeroporto Ataturk. Ed è tristissimo ora leggere le storie di alcune delle vittime dell'attentato terroristico di ieri, l'ennesimo di una lunga serie che da un anno ha colpito la Turchia. 

Faremo invece tappa a Londra, e ci fermeremo lì per due giorni. Pochi per capire come nella Capitale inglese vivano il risultato del referendum sulla Brexit, ma sono curioso di vedere alcuni segni di questo periodo comunque cruciale per il Regno Unito. Quando arriveremo in Italia so già che verrò sommerso di domande. "E Trump? Vincerà le elezioni? Tutto il Mondo è Paese, eh?". Nessuno ha la bacchetta magica per fare previsioni. Nessuno si azzarda a farne, pena perdere faccia e magari pure la pagnotta. Ci sono valide ragioni politiche, demografiche e di meccanismi elettorali che rendono difficile una vittoria di Trump contro Hillary Clinton, sebbene nessuno dei due candidati alla Presidenza USA sia particolarmente amato. Per non entrare troppo nello specifico, mi limiterò a ripetere agli amici italiani che Europa e America son tanto diverse. Che americani e inglesi condividono la lingua e poco altro. Che in un Mondo dove tutti commerciano con tutti, dove tutti imparano a fare tutto, e dove la tecnologia fa aumentare la produzione e rende irrilevanti molti mestieri del passato, per alcuni c'è solo da perdere e per altri c'è solo da guadagnare. Se poi qualcuno vorrà sapere del presunto declino dell'Impero Americano gli dirò: sfortunatamente quaggiù non abbiamo un Impero e fortunatamente non abbiamo un declino. E spiegherò loro, per l'ennesima volta, che se c'è un centro nell'Universo quel posto è New York. Per essere ancora più specifici, è Brooklyn. Anche se son tempi grami per fare la maionese artigianale, con 'sti affitti che vanno sempre più alle stelle. 

A Torino c'era un uomo che, almeno due decenni fa, aveva un'idea molto chiara di "Impero".
Era l'estate del 1989. Tempo d'esami di maturità. Dopo un anno, con alcuni amici, ero tornato davanti al mio ex liceo. Non eravamo gli unici. C'erano anche un paio di giornalisti, in attesa dell'uscita dei primi maturandi. Posto perfetto per raccontare una storia, perché nello stesso isolato convivevano uno dei licei più importanti della città, lo scientifico Galileo Ferraris, e uno degli istituti tecnici più importanti sempre a livello locale, il Sommeiller. Uno dei due giornalisti era Gianfranco Bianco, per la RAI di Torino, l'altra una ragazza che lavorava da poco per la cronaca cittadina di Repubblica. Era carina. Volevo parlarle, fare colpo. Per questo, dopo aver trascorso un bel po' di tempo a parlare con Bianco, gli avevo chiesto in prestito il suo microfono e, con tutta la faccia tosta dell'epoca, mi ero presentato alla giornalista, fingendo di volerla intervistare. Chiunque abbia mai visto un telegiornale della regione Piemonte sa che sullo schermo Gianfranco Bianco era un professionista impeccabile, serio. Ebbene, quello stesso giornalista scherzava con noi e mi aveva ceduto il suo microfono come niente fosse. 

Di studenti in uscita non c'era ancora traccia. Gianfranco Bianco ci raccontava storie del suo lavoro e noi gli facevamo domande. Volevamo sapere chi fossero le giornaliste più belle in RAI. Volevo sapere di Carmen Lasorella. Lui, senza scomporsi, serio: "Carmen Lasorella? Una figa imperiale".

Gianfranco Bianco, che la terra ti sia lieve.

15 febbraio 2016

Vi presento la mia "Guida Inutile NEW YORK" [ NYC #59 ]

Venite a spasso nella mia (nuova) città


"Guida Inutile NEW YORK" di Denis Spedalieri

FREEZER esiste dall'agosto del 2006. Un semplice diario. Un blog anomalo, perché non faccio vita nella blogosfera. E in questo modo il mio FREEZER continuerà la sua esistenza.

Però, dopo tre anni di vita trascorsi qui a New York con la Ragazza Dai Capelli Rossi e il nostro Piccoletto, ho deciso di aprire anche un altro progetto.

In questi tre anni tanti amici sono passati in città. E con il tempo tutti mi hanno ripetuto la stessa domanda: "perché non scrivi una guida?". Tra questi, anche l'amico e fotografo Sandro Pisani. Arrivato a Brooklyn nel giugno dello scorso anno, mi ha chiesto di accompagnarlo in giro per il suo lavoro. Quando gli ho spiegato che avrei preferito scrivere un nuovo blog, lui mi ha regalato la sua idea: "un blog su tutto quello che conosci di New York, una 'guida inutile' della città".

Dopo mesi di pensieri, quel blog è nato. Il suo nome è "Guida Inutile NEW YORK", www.guidainutile.nyc è il suo indirizzo.

Ho aperto anche una pagina su Facebook: www.facebook.com/guidainutilenyc
E un profilo su Twitter: @guidainutilenyc
E non volevo farmi mancare Instagram: guidainutilenyc

Come si dice dalle mie nuove parti: Welcome to New York!
 

12 febbraio 2016

FREEZER

Che se poi questo blog si chiama FREEZER, la ragione sta tutta qui sotto. E nel mio amore per Carlo Verdone. (Gattaccio Pietrone, so che apprezzerai pure tu.)



25 gennaio 2016

Liber [ NYC #58 ]

Vivi e lascia vivere

Il meteo italiano non fa notizia a New York. Le unioni civili, si
Il mio vicino in biblioteca legge il New York Times fresco di giornata. Riuscire a trovare la copia del giorno è quasi una mezza impresa. Ed è una gara per gli anziani, che giustamente se lo contendono. In biblioteca i giovani ci vanno per il collegamento internet, quelli di mezz'età per cercare lavoro, i più fortunati si portano dietro computer e lavoro. Ci sono poi quelli che vanno davvero per i libri. Sembrano una minoranza solo perché noi con il computer alziamo poco la testa e non li notiamo. Ci sono quelli che vanno per trovare un posto caldo d'inverno e fresco d'estate. Dopo la bufera di appena due giorni fa, con i marciapiedi scivolosi e gli incroci ancora colmi di neve che non ne vuole sapere di sciogliersi, anche due passi tra gli scaffali di una biblioteca non sono da scartare. Mangiare in biblioteca è proibito. Così com'è proibito molestare, usare un linguaggio offensivo, portare coltelli, pistole o altre armi. Almeno pare sia così dal due novembre scorso e nelle biblioteche qui a Manhattan, secondo quanto riporta un avviso presente su ogni tavolo. Dormire è ancora più complicato: appena appoggi la testa al tavolo, o anche solo chiudi gli occhi, arriva un impiegato a svegliarti. Nessuna pietà. Nemmeno quando ti addormenti per colpa della biblioteca. A Soho, in Jersey Street, ce n'è una che sembra fatta apposta per annientarti. A parte i due piani interrati, con quasi totale assenza di luce naturale, il piano terra ospita delle poltrone vicino alle finestre lungo la strada. Quando ti siedi su una di quelle poltrone dopo pranzo, anche se hai mangiato una banale fetta di pizza, sei spacciato. Come tanti altri ho scoperto solo di recente che a due passi da quella biblioteca, proprio dietro l'angolo, abitava David Bowie. Pare che chi lo incontrasse per strada non lo importunasse mai, anche riconoscendolo. Nella migliore delle tradizioni newyorchesi: c'è spazio per tutti, ognuno è libero di vivere la sua vita come meglio crede. Puoi passare inosservato anche se sei famoso, ma non per l'indifferenza.

Alzo la testa e guardo oltre la vetrata. Fisso il traffico che scorre sulla 23esima, sta per iniziare l'ora di punta. Io devo tornare a Brooklyn e oggi tocca a me andare all'asilo a prendere il piccoletto. Inizio anche ad avere caldo. A quanto pare una delle impiegate ha più caldo di me, perché sta già in canottiera allo sportello del prestito libri. Attorno ci sono persone che sono sedute da tempo e non si sono nemmeno levate la giacca per il freddo. Un signore non ha abbandonato nemmeno il suo colbacco.

Intanto il mio vicino di banco se n'è andato. Afferro il giornale, che ha lasciato sul tavolo. Sulla prima pagina del New York Times si parla di Italia e delle divisioni sulle unioni civili. M'è passata la voglia di leggere. Vado a prendere la metropolitana.

24 gennaio 2016

Anno nuovo, e solo quello [ NYC #57 ]

Hai voglia a dire che non s'invecchia

YMCA Park Slope, Brooklyn

"Can I borrow you?". Si, sta proprio rivolgendosi a me. A parte lui, sono l'unico maschio adulto presente. Per il resto, solo mamme, amiche delle mamme e babysitter. Me ne sto tranquillo a bordo di uno dei tre campi da basket ospitati sotto la grande volta della YMCA di Park Slope. Quello che un tempo era un arsenale, adesso è una delle più grandi palestre di tutta Brooklyn. Questo giovedì l'allenatore deve fare a meno del suo assistente. 12 bambini, tra cui anche il Piccoletto di casa Spedalieri, sono pronti a giocare a football. Ognuno stringe la propria palla come fosse oro. Io adesso sono esattamente al centro del campo e loro mi puntano: sarò l'ultimo ostacolo prima del touchdown. Sono un adulto rispettabile, loro sono solo dei bambini che smaniano per giocare e tra questi c'è pure mio figlio. Primo pensiero? Col cacchio che li faccio segnare.

02 gennaio 2016

Come in un film [ NYC #56 ]

Grandma is coming to town


"Parlate inglese?", ci chiede la signora che continua a passeggiare mentre si accosta a noi. La mia risposta, ancor più delle parole che lei stava prima origliando, lascia zero dubbi sul mio passaporto: "ii-ee-ss", rispondo sorridendo. A quel punto, mentre tutti noi proseguiamo a camminare senza nemmeno per un istante modificare il ritmo dei nostri rispettivi passi, la signora ci spiega il perché della domanda: "Mi piace molto ascoltare l'italiano, sembra d'ascoltare un film". Ringrazio, le dico che lei è davvero gentile e poi, scherzando, aggiungo: "Chi lo sa? Magari siamo proprio noi un film...". Si mette a ridere. E, mentre si allontana: "un bellissimo film. Pasolini!".
Botanical Garden, The Bronx

Quando ci saluta, la signora che ama Pasolini è praticamente già arrivata a casa, un tradizionale brownstone sulla 3rd Street di Park Slope. Guardo il numero civico del suo palazzo, sembra un perfetto conto alla rovescia, di quelli che il nostro Piccoletto inizia giusto in questi giorni a praticare quando gioca a lanciare nel suo Spazio qualunque oggetto che nella sua testa è parente di un razzo. La mia mamma ha la faccia perplessa. Le traduco il breve siparietto che abbiamo avuto con la signora. Chissà se la mia mamma adesso sta pensando che magari qui a New York la vita sembra davvero un film. 

21 novembre 2015

Catrame [ NYC #55 ]

A New York come a Parigi


"Me siento muy contento, me siento muy feliz", cantano in coro i quattro musicisti. Potrebbero essere messicani, ma a parte il pregiudizio non ho altri motivi per pensarlo. Scendono a DeKalb Avenue, l'ultima fermata di Brooklyn prima di arrivare a Manhattan. La metropolitana riparte. Ho trovato posto a sedere al fondo della carrozza e sento che potrei addormentarmi da un momento all'altro, anche se è solo metà pomeriggio. Si apre la porta che dà sulla passerella che connette i vagoni. Quella porta che, secondo i moniti terrorizzanti scritti per i genitori sul retro delle metrocard, non si dovrebbe mai aprire per non rischiare di finire sui binari. In mancanza di bagni pubblici nelle stazioni, quella passerella è non di rado usata come orinatoio.
Guggenheim Museum

Dal vagone a fianco arrivano due ragazzi. Uno ha in mano uno stereo portatile, l'altro annuncia che è "showtime". Iniziano a ballare. Nonostante il volume della musica sia decisamente alto, Shazam non mi aiuta a riconoscere quel giro ossessivo che mi sta entrando piano piano nella testa. Il treno adesso corre in superficie lungo il Manhattan Bridge. Giusto il tempo di guardare su Internet le ultime notizie dalla città. A Midtown un isolato si sta riempendo di fumo. Pare sia solo un incendio, niente di grave. Qui gli attacchi terroristici di Parigi, freschi di nemmeno 24 ore, trovano nervi allenati alla minaccia permanente: è una consuetudine la voce in metropolitana che ti ripete "if you see something, say something". Ma non sorprende che molti abbiano iniziato a pubblicare immagini via Twitter e a chiedersi cosa stia succedendo in mezzo a quel fumo. Si torna in galleria e non c'è più segnale. Un pensiero in meno.