25 settembre 2018

Whatever


Se non ci fosse stato il semaforo, avrei fermato ugualmente la macchina e sarei sceso a fotografarla. Avevo anche pensato che avrei potuto rompere il ghiaccio con un banale “can I take a picture?” dall’accento quasi italoamericano per davvero e senza inutili “do you mind”.
Mi avrebbe preso per matto o, anche peggio, per un vecchio maniaco.

Non sarei mai riuscito a spiegarle che vivo in un posto dove è normale che a volte la gente ti rivolga la parola e poi il momento dopo se ne vada, senza sentire l’urgenza di doverne aggiungere altre. Ho fatto apprezzamenti sui cappotti di ragazzi che dopo un istante hanno tentato di sorridermi mentre invece fuggivo dalla stessa metropolitana oppure al supermercato ho ascoltato gente mai vista prima suggerirmi d’acquistare la scatola di biscotti a fianco di quella che avevo scelto io. Lo so, adesso sono tornato dove queste eccentricità son quasi molestie. Ma avrei potuto almeno dire alla mia perfetta sconosciuta che anni prima, nella piazza lì a due passi, ero sceso dalla macchina sempre in piena notte per aiutare tre perfetti sconosciuti sulle strisce pedonali a mimare Abbey Road.

Mentre aspettavo che la luce del semaforo diventasse verde, nel buio ingiallito dai lampioni del centro avevo visto risaltare le sue scarpe bianche e le gambe incrociate a formare una specie di P sbilenca. Ma quello che davvero mi aveva attirato erano le enormi cuffie per la musica e il fatto che stesse smanettando sul suo telefono. E che tutto attorno a lei non ci fosse un’anima che fosse una, e non un suono. Magari lei stava scrivendo a qualcuno, oppure sfiorando delle fotografie oppure ancora cercando una canzone. Poco importava. Eravamo le uniche due presenze in strada nel vuoto della notte. Lei ferma in un angolo dove c’è un negozio che nemmeno a farlo apposta si chiama proprio “Punto Notte”, e non vende biancheria intima o daiquiri ma coperte e lenzuola.

Per me era lei che rendeva perfetto quel quadro di Torino, non il palazzo barocco illuminato al fondo di una delle rare vie che non si è piegata alla mappa ortagonale dei pratici militari romani.
Alla fine non sono sceso dalla macchina, e non solo perché il mio telefono era invece da ore privo di vita. Avrei rovinato non solo il suo momento, ma soprattutto il mio. Ho anche pensato che il mio, di momento, fosse proprio speciale. Stavo iniziando in quasi solitaria la mia traversata di ritorno nell’unico mare che ho sempre conosciuto.

Per rientrare a Santa Rita non c’era alcun motivo di deviare prima ad est lungo la via che celebra il più importante dei quattro fiumi cittadini, quello che noi torinesi (anche quelli espatriati da tempo) condividiamo forzatamente con quelli che si definiscono padani mentre noi ci siamo sempre sentiti isolatamente montanari o almeno collinari. Ma via Po, a meno di non essere solo maniaci della strada sempre più corta, è l’unico fiume legittimato a portarti davanti al faro di questo mare. E io, di fronte alla Mole spenta, ho pensato che potevo portarle il mio rispetto in un modo solo. Fermandomi in mezzo alla strada, e spegnendo i fari della macchina.

Credevo di ricordarmi tutte le rotte del mio mare, e mi son dovuto ricredere. Non tanto perché ho visto alberghi dove una volta poteva esserci solo l’ennesimo anonimo palazzo ottocentesco, Gramsci o non Gramsci. O perché nel mezzo di una piazza che non era mai stata tale, e che le madamine odiavano per il suo parcheggio sotterraneo sovrastato da colline squadrate artificiali, adesso c’è una birreria che distribuisce e riceve amore. Ma perché ho dimenticato che in centro le aree pedonali hanno ridisegnato dove puoi spingerti con la tua nave. Così, nella cappa della notte, e nella speranza di non trovare la guardia costiera con la fiamma sul cappello, ché poi mia madre una multa presa mentre navigavo con la sua macchina non l’avrebbe digerita, sono andato contro la corrente. Giusto solo per evitare quei tre isolati che mi avrebbero allontanato per qualche impaziente minuto dalla mia rotta verso sud. I carabinieri, alla fine, li ho incrociati poco dopo. E ho pure dato la precedenza per non perdere la mia patente nautica.

Forse non sarà come la città che non dorme mai, la mia Torino. E in un qualunque martedì notte che è già primissimo mercoledì mattina le macchine per le strade sono proprio un’eccezione anche per la città dell’auto. Ma dal tuo specchio retrovisore possono sbucare quattro ragazze in bicicletta, in fila orizzontale, a far la gara come Baronchelli e Aldo, Giovanni e Giacomo. Io ho accostato a sinistra e mi son fermato. Volevo sbirciare chi avrebbe vinto al photo finish  prima che il mio semaforo fosse di nuovo diventato verde.

Non ci sono solo silenzio e rotte inconcludenti in questo mare notturno. C’è anche la voce registrata di Mixo, quella di una vita, e una “soft summer breeze” che “makes me think of my baby I left down in New Orleans”, anche se la mia non si chiama Magnolia e mi aspetta in una diversa New. A inizio serata, sulla stessa radio il cui nome non si capisce mai se prenda a pugni l’inglese o imiti una stazione di musica sudamericana, c’era stata un’orrenda copia dei Led Zeppelin proveniente dal Michigan e non avevo capito il nesso con la voce rassicurante di Luca de Gennaro. Boh, whatever. Ma whatever per davvero. Perché non ci riesco nemmeno più a capire come si faccia a nominare una meravigliosa trasmissione radiofonica con una parola che io sto imparando a usare solo per dire che non me frega niente o per mandare qualcuno a farsi fottere.

Poco importa. L’aria inizia a farsi fresca e la colonna sonora meno lineare di sempre mi porta verso quello che spero sia l’unico igloo di pietra al mondo con i neon cardinali.

Importa poco. Mi basta solo una scusa per rallentare la mia traversata.