11 ottobre 2011

SOTTO E SOPRA

Nella metro


"Now are you ready to grab the candle
That tunnel vision - not television
Behind the curtain - out of the cupboard
You take the first train - into the big world
Now will I find you - now will you be there"
.

La musica nelle cuffie mi aiuta a concentrarmi solo sui volti, senza farmi distrarre dalle parole. Hanno un aspetto più ordinario rispetto ai loro coetanei di Palazzo Nuovo, passano quasi inosservati. Alla fermata Nizza la metro si riempie di ragazzi delle facoltà scientifiche: di sicuro arrivano dalla vicina Biotecnologie, ma nemmeno via Pietro Giuria è poi così lontana.
Lui, vestito di grigio chiaro dalla testa ai piedi, è un ragazzo dalla corporatura massiccia e sembra smentire il mio assunto che questi giovani siano poco attenti alle mode: porta a tracolla una di quelle borse fatte con i teloni degli autotreni e che si vendono on line o nei negozi trendy.  Sale sul mio vagone, con un'amica dall'aria annoiata e decisamente persa tra i suoi pensieri. Due ragazze sono vicino a loro. Una lo saluta e si mette a parlare con lui, l'altra non fa che osservarlo. Non stacca mai gli occhi, nemmeno per sbattere le ciglia, fino a quando lui non capisce che forse è arrivato il momento di presentarsi, almeno per educazione. Dopo lo scambio dei nomi (che ovviamente io non posso sentire), lui raddrizza la sua schiena da pavone e, afferrando con le dita un ciuffo di capelli, cerca il riflesso della sua immagine nel vetro che separa il treno dalla galleria. Lei, "esile come una promessa", intimidita nel suo maglioncino rosso, inizia a giocare con i suoi lunghi capelli chiari, lunghi abbastanza per attorcigliarsi all'indice dopo qualche giro.
A Porta Nuova la mia curiosità deve scendere, non saprò mai se si sposeranno.
Faccio le scale a piedi e mi regalo la luce di Torino.

"Taste it in the air so sweet
because they come alive
my visions of the city street
all of electrify".


26 giugno 2011

UNKNOWN, 2011

Con


Ci sono parole che non possono stare insieme, come feta e anguria. Feta, non fetta.
L'anguria non può stare con la feta. Solo a parole, però. Basta assaggiare per capire che è vero il contrario. La storia inizia così: ci sono un cinghiale, una capra e un'oca. E ci sono seppie, noodles, spinaci, uvetta, marsala e peperoncino. E ci sono pure carote e marmellata d'arance, amare.
In realtà, non è che siano davvero tutti nella stessa storia.

Il cinghiale corre per il prato, probabilmente vuole starsene da solo. Altrimenti non si spiega perchè fugga le attenzioni insistenti dell'oca. Certo, di suo l'oca non è proprio nota per l'intelligenza vivace. Ma forse non è lei a peccare di sensibilità, forse è il cinghiale che non riesce ad arginare la sua ansia da riservatezza.
La capra, a minima distanza, osserva la scena tra i due. E' un distacco interessato, si intuisce che sta aspettando il momento buono per dire la sua.
Chi mette becco è di sicuro l'oca: lo spalanca per starnazzare e per beccare (appunto) il cinghiale che vorrebbe provare ad allontanarsi. Se è un tentativo per irritarlo, sta fallendo miseramente: il cinghiale sembra piuttosto impaurito e con quel fisico non potrà andare tanto lontano. Al massimo, potrà arrivare alla rete di recinzione che disegna i confini del loro universo.
La capra decide finalmente d'avvicinarsi all'oca e al cinghiale. Tutti e tre si fermano di colpo. Stanno a guardarsi per un po', sembra quasi che si scrutino. Poi, come niente fosse, ognuno riprende a farsi pacificamente gli affari suoi. La sera sta per arrivare e l'erba è proprio verde, come è obbligatorio che sia almeno l'erba di campagna. Non fosse per qualche rara automobile, null'altro si sentirebbe se non i versi e i grugniti di questa forzata convivenza a tre.

A pensarci, nemmeno gli ingredienti hanno tanta libertà di scelta. E se il cuoco si dimentica di passare al supermercato prima di rientrare a casa, anche il suo arbitrio sarà meno libero. Insomma, fantasia contro frigorifero. A meno di non pensare più in termini di scontro e provare invece a trovare un accordo che soddisfi il palato e allontani la paura per ciò che non abbiamo mai assaggiato prima.
Le seppie con gli spinaci e l'uvetta non sono una novità per me. E, da solo, avrei anche potuto immaginare che spruzzarci sopra abbondante Marsala sarebbe stata una mossa utile per dare sapore. Ma di fronte al suggerimento d'usare i noodles come contorno, ho capito che la mia strada per la fusion in cucina è ancora maledettamente lunga. Chapeau.

Adesso cambiate storia e prendete un pentolino. Sciogliete un po' di burro con l'acqua, aggiungete le carote e fatele cuocere con la marmellata d'arance amare. Arance di Sicilia, ovvio, ché non possiamo mica accettare quelle calabresi o, ancora peggio, quelle spagnole. O forse potremmo, con qualche pregiudizio in meno.
Deliziose, queste carote. Come si chiama il piatto?
"Non lo so! Lo faceva sempre la mia mamma e lo utilizzava con l'arrosto...".

Dolce, salato, amaro.
Insieme, alla faccia degli integralisti più noiosi.
Basta solo provare, la convivenza è alla portata di tutti.
La sfida più divertente è un'altra: è la condivisione.
Davvero un'altra storia.

15 marzo 2011

TESTE

Dal parrucchiere

È noto: il medico è incapace di curare se stesso. E così un consulente di carriera faticherà — per usare un eufemismo — a definire da solo i suoi obiettivi di crescita professionale. E un parrucchiere porterà i suoi capelli a zero, soprattutto se la sua calvizie sarà precoce. Il mio non fa eccezioni, rispetta in pieno la nemesi.
Osservo le sei persone che mi precedono: a parte un signore sulla settantina, i cui capelli sono completamente bianchi, gli altri sono tutti ragazzi poco più che ventenni. Non capisco: ve ne fosse uno coi capelli lunghi o fuori posto. Macché, hanno tutti capigliature corte, curate, qualcuno ha pure il gel per vincere la gravità. Che ci son venuti a fare qui? Passo la mano sulla mia testa, sembra un cuscino e da almeno una settimana supplica le forbici.
Il negozio è piccolo, saranno in tutto 15 metri quadri. Il titolare è giovane e senza aiutanti. 
Alle pareti, immancabili, fotografie di Valentino Rossi e una sciarpa della Juve. Forse le danno in dotazione con lo shampoo e le lamette da barba. Le vere novità sono un distributore di numeri e un display simile a quello che trovi nella salumerie dei supermercati. La musica no, è sempre quella dei network che pompano, da sempre, la stessa house giorno e notte.
Piove da un giorno ma sono l'unico ad avere scarpe fatte per resistere all'acqua, come solo gli inglesi riescono. Anche il signore coi capelli bianchi porta delle sneakers. Anche le sue arriveranno dritte dritte dalla Cina; ma al mercato di Corso Racconigi non gli avranno chiesto la Visa. Un ragazzo azzarda una scarpa bianca, gli altri puntano tutti sul nero. Se è alta, da basket, pare che il jeans debba stare dentro la scarpa. E pare che il jeans debba essere molto attillato, per mettere in risalto le gambe storte e scheletriche di questi bambini che non crescono.
È il mio turno.
Qui non c'è più il cavalluccio.

23 febbraio 2011

TESTACODA

Feuerbach aveva ragione, siamo quello che mangiamo

E' proprio lo stomaco quello che sta cedendo, e prova a imitare la testa. Si fa sentire, il mio stomaco, con quel malessere tipico da pasto ipertrofico. La mia testa, invece, adesso sembra muta, ma non ha più un angolo libero: si affollano troppe immagini e io non ci riesco proprio a decifrarle. La citrosodina non salva dalla confusione, almeno così pare.
Avrei dovuto aspettarmelo: dopo i primi due rispettivi piatti, lui ne avrebbe sicuramente chiesto un terzo da dividerci. Un solo byriani d'agnello a testa non sarebbe bastato per mettere in fila le confidenze in ritardo di due anni. Non mi sono opposto, anzi. In fondo era l'unico modo per alzarmi da tavola e ricambiare il sorriso a quella giovane ragazza seduta alle mie spalle; che, appena arrivato, mi aveva regalato il suo senza preavviso. Un gioco innocente e nulla di più, andato avanti per un po', perché a cena avevo solo voglia di allegria cretina ed essere sicuro di levarmi dalla faccia quelle tracce funeree che forse solo io mi vedevo addosso.
Al bancone frigorifero il solito collage di carni e verdure colorate, con tonalità sicuramente meno pacchiane di quelle alle pareti. No, niente lassi salato oggi, solo birra digestiva.
Torno al mio tavolo con un piatto che strabocca quanto il mio stomaco, ma prima voglio guardarla ancora negli occhi. Si, è proprio carina mentre mi sorride. Ma io non riesco a vederla davvero, nelle mie orecchie ruota ancora un racconto che non avrei voluto aspettarmi.

04 febbraio 2011

VIAGGIO NEL TEMPO D'UN CAFFE'

Quando l'aereo può attendere

La cioccolata calda coperta di latte condensato freddo e la piccola bottiglia di San Pellegrino. Sul bancone ho solo l'imbarazzo della scelta: El Pais, Guardian, Le Monde, Repubblica, Corriere, Stampa. E ancora Time ed Economist. Alle pareti ci sono enormi fotografie, ritraggono le mani di modelli che fingono d'esser clienti alle prese con tazzine e bicchieri. Su grandi pannelli è possibile leggere il menù della caffetteria. In sottofondo la musica pop di una radio locale.
A meno di un chilometro, un'ora fa, non mi hanno chiesto il passaporto.
Zeta era l'unica donna del locale e noi eravamo gli unici a parlare italiano. La menta profumata del suo the non lasciava spazio all'aroma del mio caffè. Ascoltavo i suoi racconti sull'orfanotrofio, sulla maman, sul bosco degli stregoni. E già mi vedevo atterrare a Benin City, diretto a Cotonou. Sul grande schermo alle sue spalle, le riprese di Al Jazeera da Tahrir Square, nella Cairo che vuole cacciare Mubarak. Tutto rigorosamente in arabo.
Adesso cerco il canale in lingua inglese. E penso a un corso di francese.

14 gennaio 2011

VIA BERTANI 80

Aspettando tre uccellini

Ogni volta che ci vengo, non posso fare a meno di notare quella grande foto della laurea e immaginare l'orgoglio dei suoi genitori, che con tre lettere dorate e un punto hanno voluto ricordare per sempre il loro giovane avvocato.
E' maledettamente freddo, buio, un lungo corridoio con lapidi e fiori, in questa mattinata attraversato solo da aria gelida e da qualche donna che piange.
Lasciandosi alle spalle il campo D, la prima cosa che si nota è l'enorme croce, la si può vedere da ogni punto del cimitero di Torino Sud. Subito dietro, le due ciminiere della fabbrica. Una sbuffa, l'altra è spenta. Se solo una telecamera entrasse qui oggi, con questo sole asfittico, la retorica su Mirafiori diventerebbe davvero immortale.
Non mi piace venire a trovare mio padre qui, per me lui è rimasto davanti alle sue rose, l'ultima cosa che ha visto. Sono passati quasi undici anni e io, stamane, ero troppo vicino a questa strada per non subire un senso di attrazione e colpa.
La notte mi ha lasciato un sapore dolce, che ho paura di perdere. Questi dieci anni, invece, non li posso più perdere, sono lì. Ieri sera, mentre rientravo da Roma, una giovane hostess ha urtato involontariamente il mio ginocchio. "Scusami!".
E' sempre più difficile, in situazioni simili, che qualcuno mi dia del tu, facendomi sentire giovane.
Non c'è riuscita nemmeno lei.
Ma ho pensato che "every little thing gonna be all right".
E la sto ancora canticchiando.

08 gennaio 2011

CENTRI DI GRAVITA'

Torino-Berlino. E ritorno

Non è solo quella che vedi. Berlino ce l'abbiamo nella testa. Il Muro, le canzoni, i film.
A Berlino concedi quello che altrove ti farebbe schifo: spianate di anonimi grattacieli e angoscianti condomini da 20 piani, tanto per non perdere l'immaginario da socialismo reale.
Desideravo troppo quella passeggiata in solitudine per potermi ricordare che non dormivo da 24 ore. Da Prenzlauer Berg ad Alexanderplatz, a schivare bottiglie rotte, con la prima luce del primo giorno di gennaio.
Neanche a farlo apposta, nelle orecchie passavano random i Pink Floyd, ma quelli di "Shine on you crazy diamond".
Il Tacheles con i suoi piani a sorpresa, Tiergarten e la Bauhaus, Friedrichshain e il Raw-tempel, Kreuzberg e l'acqua multi-kulti del suo canale. Anche loro in ordine sparso, senza un tempo definito.
Mi è pure rimasta la fissa: voglio fare il tassista abusivo a Berlino, vai a capire perché. Forse perché quei viali immensi sono perfetti per fuggire.
Mica semplice rientrare in Italia e far finta di niente. Ci provo lo stesso.
L'espresso a regola d'arte in Piazza San Carlo, i noodles con gamberi e salsa di tamarindo per merenda, due passi tra gli etiopi vicino la moschea di San Salvario. Anche le colonne di giornali a casa mia sono calde e rassicuranti.
Berlino può aspettare ancora un po', tanto s'è conficcata sotto pelle.