16 novembre 2010

BUON SANGUE

Tradizioni di famiglia

Luna.
Secchiello.
Elefante.

"Zio, cos'è?". A parte il libretto di circolazione, l'assicurazione e il caricabatterie, nemmeno ricordavo cosa potesse esserci in quel cassetto.
"Uh? Questo? Uh, si, quindi... Dimmi un po', come va a scuola?".
Tanto non sarei riuscito a spiegarglielo. Cioè, prima avrei dovuto spiegargli come nascono i bambini. E poi avrei dovuto spiegargli come fare per non farli nascere, nonostante tutto. Si, insomma, vai a trovare le parole.

Luna.
Secchiello.
Elefante.
Osso.
Legge ad alta voce, è il compito del fine settimana. Scalpita, impossibile tenerlo fermo.
Non così quando, in piazza, s'imbatte in Sofia.
Anche lei ha 6 anni. Lunghi capelli ricci, occhi chiari. Lei salta come un grillo, lui è immobile ma non le stacca gli occhi di dosso. Per qualche ignoto meccanismo della comunicazione non verbale, iniziano a giocare insieme. Lei lo fa correre dappertutto e lui non riesce a starle dietro.
A 6 anni, io, avrei perso la testa per molto meno.

A cena ci provo. "Allora? Sofia?".
Alza la testa dal piatto e si blocca in un sorriso lunghissimo.
Poi torna alle sue polpette al pomodoro.
Si, insomma: vai a trovarle, le parole.


02 novembre 2010

UOMINI DA MARCIAPIEDE

O delle similitudini


Lo osservo mentre cammina.
Ancora pochi passi e ci incroceremo.
Anche lui indossa una giacca blu, impermeabile.
Anche lui ha un berretto in testa, ma io sono più alto.
Con una mano lui stringe la mano di una donna.
Con una mano io stringo la mia borsa, pesante.
Il quotidiano che stringo con l'altra mano è di quel tipico pallido arancione che i professionisti usano come un passepartout.
Anche quel che stringe lui, con l'altra mano, è di un pallido arancione.
E' il suo Pluto di peluche.
Sorrido alla nonna e tiro dritto.

13 settembre 2010

L'ALTRA

Memorie d'un tempo diverso

Ero già vecchio, in un'altra vita. Vivevo nel centro di Teheran, avevo sempre vissuto nel cuore della capitale di Persia. Almeno così pensavo, perché ero appena nato. Il mio nome era Yashar. 

27 luglio 2010

PRIMA O POI

Legge di natura

Guardo i ragazzini che giocano a pallone sull'asfalto dei giardinetti: zero smancerie, roba da smidollati.
Penso: un bel giorno arriveranno anche per loro, i sentimenti.
Saranno brune, bionde, con i tacchi. O con la barba e i muscoli.
Ma avranno sempre, immancabili, i capelli rossi.
Vero, Charlie Brown?

20 luglio 2010

ZOMBIE

Attraversando la pianura padana in treno, sulla Milano-Torino

I vagoni sono vecchi ma i sedili sono rifatti, ora sono in scai color blu: un colpo di spugna e puoi lavare macchie e sudore. Non serve nemmeno abbassare i finestrini, l'aria condizionata funziona che è un piacere.
Un cooperante vero, con tanto di sandali d'ordinanza, cerca la via per uscire dalla crisi economica nelle “Lezioni per il futuro” dettate dal Sole24Ore.
Una ragazza carina cerca la via che la porterà in Marocco, e l'ha trovata dentro una Lonely Planet.
Un uomo riscalda le sue gambe col computer acceso e il suo dirimpettaio si sta accecando su Affari e Finanza per capire le sfide autunnali di Marchionne.
Una studentessa prepara un esame sugli appunti, scritti proprio in piccolo (e sono piccoli non solo perché io sono seduto lontano).
Una ragazza dorme da quando è salita a bordo, appoggiando le braccia alla borsa che copre la sua pancia.
Al mio fianco un'altra ragazza dorme coprendo il volto con una maglia scura come la sua pelle. Forse cerca la notte che ha venduto su un marciapiede, nell'illusione di potersi ricomprare la libertà e non essere più schiava.
Io provo a passare per gli occhi della ragazza carina e a guardare lontano. Eccola lì, vedo la sagoma della vecchia centrale nucleare di Trino Vercellese. Spenta.

18 luglio 2010

FANTASMI

Attraversando la stazione

È di fronte a me, cammina quasi trascinandosi, con gli occhi socchiusi, e in mano tiene una coca-cola. L'amico, al suo fianco, ciondolando: "nessuno ti può dire che sei un tossico, perché la faccia non ce l'hai".
Mi sforzo per non guardarli, li sorpasso e proseguo la mia camminata.
Non posso fare a meno di notarla: ha capelli biondi, mossi, le sue forme morbide sono esaltate dal bikini. Ruota lentamente su se stessa. Quando ha quasi compiuto mezzo giro, l'altra faccia del totem pubblicitario lascia spazio ad un modello, pure lui in costume.
San Salvario era quasi deserta. Come i binari di Porta Nuova.

08 luglio 2010

SULL'AUTOBUS TRA TORINO E DURBAN

Prove di melting pot

Hanno scelto il luogo più disgraziato dell'autobus: i tre sedili al fondo, proprio sopra il motore. Stare lì d'estate è un supplizio. Possono sopportarlo solo perché l'aria condizionata, in via del tutto eccezionale, funziona.
Lei tormenta un po' i suoi capelli biondi e un po' i manici di una borsa rosa shocking. Gli occhi, chiari, sono dati per dispersi al di là de finestrino.
Al suo fianco c'è un ragazzo africano. Le gambe accavallate, lineamenti gentili, una canottiera per esaltare pettorali che farebbero la gioia di molte mie amiche, e pure di qualche amico. Alla sua destra c'è un ragazzo mediorientale: pantaloni scuri, una camicia a righe e un sorriso immobile appena accennato.
Si sente squillare un telefono e la ragazza risponde.
“Ohi, ciao!... Chi gioca stasera?... Si, chi gioca?... No, paura!”.
Intanto, il ragazzo mediorientale si volta verso l'africano e scuote la testa: “Germania”.
“No”, ribatte l'africano ridendo, “la Spagna!”.
“Eeeh, ma la Germania è forte...”.
“Si, ma anche la Spagna è forte!”.
La ragazza chiude il telefono e si gira verso i suoi vicini. “Si, stasera vince la Spagna”.
Il mediorientale non è convinto e fa una smorfia, mentre l'africano insiste: “Io tifo Spagna!”.
La chiacchierata mondiale si esaurisce lì.
Solo quando scendo dall'autobus mi rendo conto che quell'aria era davvero fresca.
Dal marciapiede sale un profumo penetrante di pesce fritto. Sicuramente misto.

16 giugno 2010

TOPOS

Caselle, cassetti e altri posti

In fondo, tutta questa insistenza potrebbe anche fiaccare la mia innata fiducia.
Non capisco se Best ViagraPharmacy, ViagraWholesale e Best SexPills Online, con le loro premure quotidiane via mail, vogliano rassicurarmi sull'unica assistenza che riceverò col welfare del futuro o se stiano suggerendomi qualcos'altro. Forse c'è chi non me la conta giusta e dovrei iniziare a preoccuparmi. Forse dovrei leggere meglio quelle mail. Maledizione al mio inglese difettoso.
E se non fossi io il destinatario reale? Se fossi la persona sbagliata nel posto giusto? Non vedo perché dovrei essere io quello in errore, sarà sicuramente sbagliato il posto. Si, ma quella casella di posta è la mia. Qualcosa non quadra.
Hai voglia a cercare un centro di gravità permanente, là fuori. E mica perché sono crollati i muri, annullate le distanze, diventate insipide le pietanze. Si agitano in troppi, senza sapere nemmeno perché lo facciano, figurati se sono in grado di prendere una direzione che sia una e mantenerla. No. Anche a volersi attaccare, non sarebbero un appiglio solido. Piuttosto, una nebulosa permanente, la stessa in cui si dimenano pure quelli che cercano sempre qualcosa, purchessia, ma senza muovere il culo.
Pensiero contorto e ipertrofico, il mio, s'incapretta da solo.
Quella sensazione d'essere nel posto sbagliato, fuori luogo. L'unica salvezza diventa il telefono, girato e rigirato tra le mani, alla ricerca di qualche impostazione ignota o del vocabolario ungherese. Tutto pur di non dividere una parola con Nandomartellini mancati, nasi ustionati sotto le lampade invernali o rossetti in bilico su trampolo 12, che ancheggiano con piattini lordi di pasta e maionese. Sciocco snob per dividerci scampoli di letto e sudore, anche quando l'abitino inguinale induce gli ormoni a una minor severità.
Solo un ego che proprio non voglia vedere limiti lascia la sensazione che a esser sbagliato sia il luogo. In caso contrario, sbagliata è la persona, che si sente inadatta, incapace d'adeguarsi al resto del mondo, condannata ad essere isola. L'effetto finale non cambia comunque: estraniamento.
Dei simili, da qualche parte, ci saranno pure.
Magari mi tornerà anche la voglia di cercarli.
Intanto mi tengo stretto il mio prezioso materasso da una piazza e mezza, ché per due la mia testa è ancora stretta.

Il treno correva sull'unico tratto ad alta velocità. Ma io ero attratto dagli occhi d'un cerbiatto e da una montagna di capelli ricci.
“Il mio sogno nel cassetto è diventare magistrato”. L'ho fissata per un po'.
Io lo sapevo già: aveva sbagliato cassetto.

02 maggio 2010

MORDI E FUGGI

Il mercato è umano

La macchina mi sembra una Ford, di quelle piccole. Ne escono due ragazzi africani, alti, proprio come due pali veri. Al volante un uomo bianco. Poco più di un'ora alla mezzanotte. I caporali degli spacciatori, bianchi come chi li comanda, accompagnano al lavoro i braccianti, tutti rigorosamente neri: sono loro la manodopera, faranno da sentinelle durante la notte e raccoglieranno le ordinazioni dei tossici. Qui è ancora San Salvario, ma sono lontane le vie che fanno storcere il naso ai bigotti che ignorano cosa sia diventato davvero questo pezzo di quartiere, perché non ci mettono mai piede e preferiscono leggere da casa i resoconti di qualche patetico pennivendolo strozzato dal mutuo. Qui non ci sono gli empori dei cinesi, la moschea integralista che finisce in tv, i ristoranti rumeni dietro le insegne del Chianti, i polli peruviani allo spiedo, i porno-shop vicino alla Sinagoga. Solo lunghe vie silenziose, la migliore garanzia per trattative che devono rimanere riservate, lontane da occhi curiosi. Nella San Salvario maledetta continuano a spuntare bar e locali, con musica e voci ad alto volume, che mettono a dura prova l'insofferenza dei residenti, orfana del bersaglio di sempre: gli spacciatori, ormai fuori raggio e infastiditi da troppa vita notturna.
Come quelli che raccolgono i pomodori, anche questi braccianti sono schiavi. E se questa definizione urta la nostra coscienza progressista, viene in soccorso il concetto ubiquo di flessibilità. In fondo anche loro devono adeguarsi alla moda dell'on demand (ché dire "usa e getta" fa un po' schifo). Al prossimo soffio elettorale qualcuno di loro rimarrà impigliato in una retata e verrà rimpiazzato da altri lavoratori a buon mercato.
Si, buon mercato, perché il mercato è buono, si regola da sè e si adegua ai cangianti contesti socio-economici. Lo spaccio è assediato dalla concorrenza di chi vende mojito annacquati a ragazzini pieni di brufoli? Niente paura, il mercato sposta lo spaccio di pochi isolati. Qualche serio professionista, per dare il suo voto, reclama un po' di quella legalità che lui non pratica nemmeno nel confessionale della domenica? Nessun problema, il mercato accoglie la sua supplica e, nell'attesa che la congiutura sfavorevole si spenga in un paio di giorni, procede alla ristrutturazione dell'economia criminale di zona, reclutando nuovi cristi da mettere agli angoli delle strade. Per licenziarli non serviranno articolidiciotto o arbitrati, sarà più che sufficiente che si presentino al lavoro già muniti di croci e chiodi.
Domanda e offerta. Just in time. Flessibilità. Precarietà, perché no.
Han voluto sedersi alla nostra tavola, 'sti mau mau? Che rispettino le nostre tradizioni, allora.
Quando vogliamo qualcosa, noi ce la prendiamo. Quando non ci serve più, la buttiamo, possibilmente senza riciclarla. E la proprietà nemmeno ci serve più. Basta averlo semplicemente al nostro fianco, l'oggetto del nostro desiderio, e possiamo tranquillamente illuderci d'essere quello che non siamo. Meglio: possiamo illuderci d'essere quello che non abbiamo.
Noi, quando proprio non vogliamo indebitarci per rifarci le tette o comprarci un furgone metallizzato a 5 porte e con le ruote da Tir, abbiamo imparato che è possibile noleggiare qualsiasi cosa: un martello pneumatico come un vestito. E non solo quelli da cerimonia, magari indossati una sola volta nella vita. Chi vuole può noleggiare anche i vestiti d'uso quotidiano, e una volta alla settimana può cambiare guardaroba, per sfoggiare sempre nuovi tailleur. Perché farsi fregare dal dilemma "essere o avere" quando a portata di mano c'è la terza via dell'apparire?
Ovviamente, è possibile prendere a noleggio anche essere umani e solo qualche individuo, noioso, di sicuro un comunista polemico, si ostina a chiedere garanzie per salvaguardare il redditto alla fine del noleggio o, peggio ancora, diritti durante la vigenza del contratto. Non ha ancora capito, il trinariciuto dissimulato, che oggi il software lo puoi trovare in rete e mica c'è più bisogno di comprare inutili programmi. No, no, niente d'illecito, non devi scaricare programmi illegali. I programmi non li installi sulla tua macchina, loro si trovano, legalmente, su un computer remoto e tu, legalmente, li sfrutti solo per il tempo necessario, in cambio d'un modesto canone o della sopportazione d'un po' di pubblicità sullo schermo del pc. Che c'entra questo con gli esseri umani? E già, beata ignoranza. Come se gli umani non fossero pure loro un fattore della produzione, proprio come il denaro o gli strumenti informatici. La produzione deve essere snella, non possiamo tenerci in magazzino cose che non abbiano uno sbocco immediato sul mercato. La Francia indica la via: agenzie interinali aperte anche 24 ore su 24, come i drugstore americani o i distributori automatici di fiori.
Non tutte le sfere d'attività umana soffrono di queste anacronistiche rigidità.
Il sesso, almeno quello, da sempre conosce il noleggio, e non solo in orario notturno. Con la prostituzione ti prendi il sesso solo quando serve e senza bisogno di troppe pastoie burocratiche.
L'amore, invece, è un po' più tradizionalista, almeno nelle sue rassicuranti autorappresentazioni: "ti amerò per sempre", "fino a che morte non ci separi", "come te nessuno mai" e via con lo stesso tenore. Meno male che la creatività delle relazioni extraconiugali, ci libera da lacci e lacciuoli, dando vita ad amori in piena regola ma pur sempre a termine, ovvio. Perché abbandonare per sempre le vecchie relazioni, spesso, non è solo faticoso, ma, per taluni, si rivela anche inutile. I sentimenti si spengono e si accendono con la stessa velocità. Tanto varrebbe, allora, stabilire da subito che trattasi di situazioni transitorie, in cui la soddisfazione di bisogni primari non deve tramutarsi nella costruzione di rapporti duraturi.
Ma ci riusciremo, un giorno, a liberarci della paura atavica di rimanere soli e a mani vuote. Quella paura che, per padron Toni, si traduceva nella necessità di circondarsi di "roba" e che, per molti di noi contemporanei, si traduce nella necessità di circondarci di sterminati elenchi di contatti sul cellulare o su un social network. Nascerà, un giorno, una nuova generazione, capace di superare la nostra ignavia e di dire chiaramente al prossimo: "desidero essere tuo amico per i prossimi 73 giorni, va bene? Certo, nel caso io trovassi, durante questo lasso di tempo, delle persone più interessanti, il nostro rapporto si risolverebbe con una semplice notifica". Qualche avanguardia di questa nuova specie umana forse già esiste, in controluce se ne intravedono le potenzialità ancora in larga parte inespresse.
C'è una domanda alla quale, però, non riesco a dare una risposta.
Io, un nome per questa rete sociale del futuro, pronta ad accogliere un'umanità finalmente libera da valori antieconomici, ce l'ho già. Ma come potrò tirarci su dei soldi senza sforzo?

29 marzo 2010

QUI

Ode alla democrazia (delirio sibillino)

C'è chi si fa incantare dagli imitatori di un cabarettista da crociera.
E c'è chi si affida al surrogato di un comico taccagno, nella speranza di fermare un treno veloce.
Il treno passerà lo stesso e l'ospedale, giusto lì accanto, sarà sempre e solo buono per le camere ardenti.
La sindrome di Stoccolma, qui, è roba da dilettanti.
Qui i derubati acclamano il ladro e gli offrono pure le chiavi di casa, in cambio del miracolo.
Qui nessuno è fesso, perché è cresciuto mangiando mozzarelle di bufale che pascolano nei prati color verde acido.
Qui sei fesso solo se ti ostini a parlare di regole, di accoglienza, di solidarietà.
Io mi tengo il mio antifurto. Tanto peggio per chi non ce l'ha.

02 marzo 2010

NON HO L'ETA'

Voci del passato remoto

Certo, le tecnologie, soprattutto quelle per non sentirmi lontano: il cellulare, le mail, e poi facebook, e poi skype, gli sms via internet. E le tecnologie che mi aiutano nella quotidianità domestica, anche se il microonde, la carne, prima la cuoce e poi la scongela. O quelle che non mi fanno perdere secondi di inutile fretta al casello autostradale e mi fanno risparmiare qualche grammo di metano nella ripresa. O, ancora, le tecnologie del tempo libero ma non vuoto, quelle che salvano l'opera omnia di Bob Marley nello spazio di un mignolo o quelle che rendono disponibili film d'essai capaci di piegare, o forse anche spezzare, la curva dell'attenzione d'un adulto di buona volontà (ma non certo la mia, di attenzione). E non mi manca nemmeno la curiosità per le tecnologie che trasformano le organizzazioni in soggetti pensanti e, con la sofisticata reportistica della business intelligence, le aiutano a prevedere quel che accadrà dopodomani.
Sono un uomo del mio tempo, insomma.
Solo che il mio tempo non è iniziato ieri.
Quando tutto ha preso inizio, le radio nemmeno sapevano cosa fossero le trasmissioni in stereo e non potevi appoggiare la cornetta del telefono sulla cassa per sapere chi suonasse quel brano.
Carosello non era una frode fiscale sull'IVA, ma semplicemente lo spazio di quel quarto d'ora che, dopo cena, ti divideva dal bacio della buonanotte. Solo la caduta di uno degli ultimi denti da latte avrebbe costituito un valido lasciapassare per rimanere alzati e vedere Giochi Senza Frontiere.
Il gettone non era quello di presenza ad un talk-show, ma solo quel simulacro di moneta intagliata che regalava telefonate interminabili e poi, via via, sempre più brevi, al gelo di un marciapiede buio.
Il confessionale non era una poltrona davanti ad una telecamera, ma solo un mobile angusto, dall'interno del quale un sacerdote somministrava le penitenze ai peccatori che avessero voluto considerarsi tali ai suoi occhi.
Tra le poche cose che mi degno di spolverare con dedizione, ci sono alcune consuetudini che erano già ampiamente in uso al tempo del mio Big Bang.
La moka.
I jeans a vita alta.
Il pennello da barba e poi il Floid a fine rasatura.
Le candele.
Le lettere scritte a mano.

“Mi scusi. Dove ha comprato quel giubbotto?”.
Osservo il ragazzino che mi ha fermato per strada mentre sto pagando il parcheggio.
Guardo il mio chiodo di pelle nera, il tempo non l'ha sfiorato.
Dicembre 1992, New York, settima Avenue.
E' proprio il momento di farlo tornare di moda.

24 febbraio 2010

TU CHIAMALE, SE PUOI

Il controllo delle emozioni

È un pianto continuo, fastidioso. Se inizia a piangere un bambino, quello a fianco lo segue a ruota. C'è anche una ragazza, su una barella poco più in là, e si lamenta pure lei.
Il tempo passa e l'enorme stanzone si svuota. Rimango solo, con la mia paura. Ma nessuno viene a chiedermi se ho paura. No, a me non lo chiede nessuno.
Si avvicina un'infermiera, sorride, lei.
“Bravo, tu non piangi. Per questo abbiamo fatto entrare in sala operatoria prima gli altri bambini”.
Vorrei dire qualcosa. Vorrei dire che non è giusto, che anch'io ho paura, che poi è pure entrata una ragazza grande, che...
Non ci riesco. E non piango, figurati.
Io e le mie emozioni ci conosciamo fin da quando ero bambino. Abbiamo imparato a convivere e, soprattutto, a mimetizzarci. Siamo così bravi a nasconderci, che dieci anni fa abbiamo aspettato sei mesi per piangere la morte di papà. E se proprio sentiamo che dobbiamo sbottare in un pianto liberatorio, adesso lo facciamo tra le mura domestiche, approfittando anche d'un film comico, ché fa più snob.
“Sei un maschietto, ormai, non puoi piangere come una femminuccia”. Questa frase, ripetuta da chiunque fosse titolare o anche solo si arrogasse un potere educativo nei miei confronti, per anni ha eroso qualunque forma di pensiero alternativo. E quando un'idea contraria ha provato a farsi spazio, ha trovato sulla strada delle vere e proprie corazzate: il senso di colpa e quello del dovere.
Nulla si può fare per se e tutto è dovuto agli altri. Provaci, di fronte a colossi di questa forza, a sviluppare qualche forma di solida autostima. Impresa ardua, eppure superata. Ecco, appunto: “eppure”. Come diremmo noi a Torino, esageroma nen.
Perché se riesco a fare qualcosa io, vuol dire che la può fare chiunque. Questo banale concetto è impresso a caldo, sottopelle, e devo farmi violenza per affermare il contrario. Quando ci riesco, nell'affermazione contraria, non trovo niente di meglio che imbarcarmi in progetti e situazioni che devono avere caratteristiche imprescindibili, altrimenti cambio natante: essere visionari, improbabili, poco inclini al compromesso, insofferenti alle ragioni mercantili. Se nello stesso progetto, o nella stessa situazione, c'è tutto questo, e anche qualcosa di più, allora posso stare certo che sarà amore a prima vista. Meglio, amore cieco. Perché l'autostima non deve farsi troppe illusioni, deve sapere chi detta davvero le regole. Qualcuno deve farle capire il fatto suo. E questo qualcuno si chiama"progetto fallimentare in cui nessuno investirebbe non dico denaro ma nemmeno un minuto del suo tempo". Si, è un nome un po' lungo, come quello dei nobili tedeschi.
“E' un'ottima idea, bravi. Certo, non semplice. Ci sono operazioni in corso, interessi. E poi gli interlocutori, si... e tavolo decisionale, e il consenso... E poi, una domanda: ma chi siete? Chi c'è dietro di voi? Perché, sai, è anche una questione di affidabilità più complessiva, progetti di questa natura richiedono, tu capisci...”.
Scherzi, io capisco sempre. E tiro fuori dall'armadio la mimetica chic, quella per le grandi occasioni. Impassibile, glaciale come solo un vero irascibile può essere. Un vero freezer, capace di dominare gli sbalzi di temperatura. Il fratello Blues che si toglie la polvere dal vestito quando la casa gli è crollata addosso, che osserva l'orologio e, come nulla fosse: “sono quasi le 9. Dobbiamo andare al lavoro”.
Mi chiedi come sto? Dimmi di te, piuttosto.
No, non farmi un complimento, non lo capirei. Anzi, non capirei te. Perché mai me lo fai? Tutto bene? Un po' di stanchezza ti manda in confusione? Ma no, non ti sto insultando, sul serio, volevo semplicemente dire che... Oh, lascia perdere, ho sbagliato io. Appunto.
Così, non mi puoi dire che io, si, proprio io, ti faccio emozionare. Secondo te, come dovrei reagire, io? Facendo l'unica cosa che mi viene in mente in questi casi per difendermi dalle mie, di emozioni: ci scherzo su, mi schernisco, mi prendo in giro ferocemente. E va a finire che tu pensi io stia prendendo in giro te, ma è il contrario
Ecco, si. Risveglio l'istinto e cerco nel manuale del già visto.
Perché io e le mie emozioni siamo abitudinarie, abbiamo sempre fatto così.
“Perché l'uma sempre fait parej”.
Da qualche giorno m'è venuta un'idea. E se la smettessi di scherzare?

07 febbraio 2010

SCATTI

In giro per Torino quando le auto sono ferme

La famiglia cinese sul risciò a pedali lungo i viali del Valentino.
La ragazza muscolosa che corre già in canottiera anche se il sole caldo di febbraio vuole la sciarpa.
La coppia che nasconde il bacio dietro lo zucchero filato.
Il padre che mostra orgoglioso i suoi gemelli e Carlo Alberto è solo uno dei due.
La puzza dello sterco dei cavalli presso il maneggio della Polizia.
Le prime ragazze sdraiate sull'erba davanti all'Imbarchino, in attesa del Primo Maggio.
La ragazza musulmana con il suo vivace hijab verde acido.
Padre e figlio che fanno insieme i compiti stando seduti sulla panchina di pietra davanti al Po.
Le due ragazze che studiano al Fluido mentre due loro coetanei sorseggiano vino rosso al tavolino accanto.
Le due ragazze che ai Murazzi mi chiedono d'essere fotografate davanti al fiume.
La mamma che guarda i primi passi del suo piccolo e gli parla un po' in italiano e un po' in rumeno.
Il ragazzo che porta a spasso il suo mini-cane.
Il cucciolo di mini-uomo inseguito dal suo papà.
I vigili urbani fermi con la paletta dietro i birilli arancioni.
La mamma che fa le corna sulla testa del papà mentre il bambino li fotografa e forse quelle corna non sono nemmeno le prime.
Il ragazzo pigro che lascia scivolare lentamente il suo skateboard, confidando nell'inclinazione di Piazza Vittorio.
Quando meno me lo aspetto, colgo lo sguardo incuriosito di una ragazza che cammina con un'amica. Appena nota che la sto osservando anch'io, gira la testa. Di scatto.

06 febbraio 2010

AD OCCHI CHIUSI

Un venerdì sera

“Hey! Manca il quarto!!”, urlo.
“Vieni!!”.
Non me lo faccio ripetere due volte. Mentre siamo fermi al semaforo, mi butto fuori dalla macchina e corro verso di loro.
Occhio e croce saranno tutti ventenni o poco più. Tre ragazzi e quattro loro amiche, tutte con la macchina fotografica o il cellulare, pronte a immortalare la scena. Quel tratto di strada è deserto e i ragazzi scimmiottano i Beatles sulle strisce pedonali.
“Ma dai, non potete fare Abbey Road in tre, e che diamine. Forza!”.
“Sei un grande! Come ti chiami?”.
Non lo so come saranno venute quelle fotografie. Ma vuoi mettere lo sfondo di Palazzo Reale in piena notte?
“Ti sei fatto dare la foto?”, chiede Paoletta. “No, son venuto via così, mi basta ricordare”.
Appena le tre di notte e siamo già a farci il cappuccino. Non ci riusciamo proprio più a star dietro alle tendenze, alternativi nostro malgrado. Arriviamo troppo presto alle serate e ce ne andiamo quando i locali scoppiano di corpi sudati.
Siamo in piena “downtown”, anche se Papaciccio aveva chiesto espressamente di fermarci in un bar di periferia. A dir la verità, lui stasera avrebbe desiderato tutt'altro. Usciti con l'idea di tuffarci in una notte a base di “dubstep”, lo abbiamo trascinato in mezzo alla “techno funk” di due dj berlinesi. Tutto molto “cool”, la musica e, soprattutto, la ragazza che ho notato all'ingresso. O forse era un “girl” e quella era una “door”.
Nulla è andato come da programma, stasera.
Dopo cena l'orologio avverte che sarebbe criminale passare a giocare coi piccoli a quell'ora, e l'esperienza mi fa tremare al pensiero dell'aspettativa che avrà creato in loro il papà.
Ma il mio senso di colpa oggi è bulimico.
L'avevo segnato in agenda, proprio per non dimenticarlo. Ero stato pure invitato, l'avevo richiesto quell'invito. E solo prima di mezzanotte mi accorgo che lo spettacolo teatrale diretto da un mio amico sarà finito da un pezzo. Devo fare qualcosa per la mia memoria. E chissà dov'è la mia testa. A volte nemmeno vedo quello che ho davanti al naso.
Dicevo?
La birra era come la desideravo: fredda e dal sapore insignificante. I suoni vanno oltre l'immaginato, ma dopo due ore non ci divertono più. Papaciccio, incurante della folla, va verso il bar. Io e Paoletta pensiamo sia stolto, ma forse è solo sete. Mentre difendiamo la colonna cui ci siamo appoggiati per sempre, inizio a giocare con gli occhi della ragazza che mi sta di fronte. L'amico che parla con lei se ne accorge e, dopo un po', mi dice ridendo: “siete anche voi qui per le pastiglie?”.
Gattaccio, perché non sei qui? Ora servirebbe una delle tue risposte alienate. Nel fiume umano dei Murazzi tossici e notturni, alla richiesta di una cartina tu rispondesti: “dove devi andare?”.
Ma io non sono così pronto. Riesco solo ad alzare le guance e dirgli no. Nel mezzo delle luci colorate, del frastuono e dei suoi limiti, non credo che abbia colto il sarcasmo della mia smorfia.
Mica sono moralista per davvero, ci mancherebbe altro. E capisco pure che qualcuno abbia bisogno d'aiuto per sopportare questo ritmo ossessivo e divertirsi.
Sono solo curioso. Dov'è finita la capacità di fantasticare da soli?
Eppure, è così semplice, come in un bacio.
Si, basta solo chiudere gli occhi.

31 gennaio 2010

FERMA

Quando l'amore è immobile

Ti ho trovata quasi per caso.
Ti cercavo, ma non pensavo ad una come te.
Siamo così diversi, noi due.
Io incapace di stare fermo, quando tu non insegui il nuovo e i tuoi movimenti sono impercettibili.
In silenzio urli il tuo desiderio d'attenzione e io quasi mi trascino per risponderti.
Invadente, casinista, totalmente centrato su me stesso, penso alla mia musica, ai mie libri, ai miei film, alle mie montagne di giornali, ai fogli dei miei appunti sparsi, ai vestiti che nascondono le poche sedie ancora libere da qualcosa.
Non conosco orari regolari. Anche quando rientro a sera tardi, il mio primo pensiero va al frigorifero e, pur stanco, amo mettermi ai fornelli.
Tu sei calda, a volte pure troppo per me.
In una domenica di sole come questa, io vorrei solo perdermi per strada.
Invece ho deciso di prendermi cura di te.
La mia casa.

26 gennaio 2010

PARABOLA

Ascesa e discesa degli animali sociali

Si intravedono per la prima volta in un luogo immenso e affollato.
Affollato, si, ma asettico, privo di rumori e odori. Qualcuno dice che forse, in quel luogo immenso, i confini nemmeno esistano.
Loro si scambiano i saluti e, per un attimo, hanno l'impressione d'essere vicini e di potersi stringere la mano. Eppure, sono separati da un lungo muro, spesso e trasparente, che sembra fatto apposta per ingannarli.
All'inizio sono a disagio, così prima cercano conforto attorno a se, in qualche sguardo conosciuto. Poi prendono un po' di coraggio e provano a comunicare tra di loro, senza intermediari. Schiacciano il naso al muro, convinti che i suoni possano superare quella barriera.
Non sembra una cosa facile, lì per lì. Ma loro sono pieni di buone intenzioni. Quando il labiale non basta più, iniziano a lanciarsi aeroplanini di carta e parole.
L'aria è solcata dai voli sempre più fitti, ma anche l'inchiostro finisce per non bastare più.
Così prendono altro coraggio e decidono d'arrampicarsi sul muro.
Si ritrovano in cima, finalmente sono faccia a faccia e possono guardarsi negli occhi.
Si annusano, si toccano, si ascoltano curiosi.
Ma lì, in cima, non si può stare a lungo, ché lo spazio è comunque ristretto.
Allora, ognuno capisce che è arrivato il momento di tornare sui propri passi.
E tornare ad essere semplicemente un nome, tra i tanti scritti su quel muro.