23 febbraio 2011

TESTACODA

Feuerbach aveva ragione, siamo quello che mangiamo

E' proprio lo stomaco quello che sta cedendo, e prova a imitare la testa. Si fa sentire, il mio stomaco, con quel malessere tipico da pasto ipertrofico. La mia testa, invece, adesso sembra muta, ma non ha più un angolo libero: si affollano troppe immagini e io non ci riesco proprio a decifrarle. La citrosodina non salva dalla confusione, almeno così pare.
Avrei dovuto aspettarmelo: dopo i primi due rispettivi piatti, lui ne avrebbe sicuramente chiesto un terzo da dividerci. Un solo byriani d'agnello a testa non sarebbe bastato per mettere in fila le confidenze in ritardo di due anni. Non mi sono opposto, anzi. In fondo era l'unico modo per alzarmi da tavola e ricambiare il sorriso a quella giovane ragazza seduta alle mie spalle; che, appena arrivato, mi aveva regalato il suo senza preavviso. Un gioco innocente e nulla di più, andato avanti per un po', perché a cena avevo solo voglia di allegria cretina ed essere sicuro di levarmi dalla faccia quelle tracce funeree che forse solo io mi vedevo addosso.
Al bancone frigorifero il solito collage di carni e verdure colorate, con tonalità sicuramente meno pacchiane di quelle alle pareti. No, niente lassi salato oggi, solo birra digestiva.
Torno al mio tavolo con un piatto che strabocca quanto il mio stomaco, ma prima voglio guardarla ancora negli occhi. Si, è proprio carina mentre mi sorride. Ma io non riesco a vederla davvero, nelle mie orecchie ruota ancora un racconto che non avrei voluto aspettarmi.

04 febbraio 2011

VIAGGIO NEL TEMPO D'UN CAFFE'

Quando l'aereo può attendere

La cioccolata calda coperta di latte condensato freddo e la piccola bottiglia di San Pellegrino. Sul bancone ho solo l'imbarazzo della scelta: El Pais, Guardian, Le Monde, Repubblica, Corriere, Stampa. E ancora Time ed Economist. Alle pareti ci sono enormi fotografie, ritraggono le mani di modelli che fingono d'esser clienti alle prese con tazzine e bicchieri. Su grandi pannelli è possibile leggere il menù della caffetteria. In sottofondo la musica pop di una radio locale.
A meno di un chilometro, un'ora fa, non mi hanno chiesto il passaporto.
Zeta era l'unica donna del locale e noi eravamo gli unici a parlare italiano. La menta profumata del suo the non lasciava spazio all'aroma del mio caffè. Ascoltavo i suoi racconti sull'orfanotrofio, sulla maman, sul bosco degli stregoni. E già mi vedevo atterrare a Benin City, diretto a Cotonou. Sul grande schermo alle sue spalle, le riprese di Al Jazeera da Tahrir Square, nella Cairo che vuole cacciare Mubarak. Tutto rigorosamente in arabo.
Adesso cerco il canale in lingua inglese. E penso a un corso di francese.