29 agosto 2014

No Sleep Till Brooklyn [ NYC #37 ]

"Certo, però, che un piccolo diario di questi giorni avresti potuto scriverlo". Non scherza. Lo so che Fratello di Vespa non sta affatto scherzando. Guardo in basso dalla vetrata che affaccia dritta su Union Square. Se ci fosse qui anche il mio piccoletto gli direi di alzare lo sguardo e guardare lassù, la punta dell'Empire State Building. Stasera è illuminata di bianco e lui, qualche volta, sbaglia nome e la chiama Mole. No, piccoletto mio, non è la Mole Antonelliana, quella sta dove sei nato. E, per fortuna tua, adesso sarai a casa a dormire. Almeno tu... Noi, invece, siamo ancora in giro ad un'ora in cui i ragazzini dovrebbero essere a dormire e i grandi, a loro discrezione, potrebbero sprofondare nel letto o addormentarsi sul divano davanti alla tv o aspettare che dalla doccia si materializzi una ragione che sussurri un argomento convincente per rianimarsi. I due figlioli di Fratello di Vespa non sembrano aver gradito particolarmente la cena. Il più grande, da buon figlio di un napoletano di nascita, proprio non riesce a trovare uno stimolo che sia uno per mangiare la pizza che ha davanti al naso. Da giorni va ripetendo che New York non è proprio nota per la pizza. Che dovrei dirgli, io? Che alcuni milioni di newyorchesi, almeno quelli doc da generazioni e non i trapiantati dall'Ohio, considerano la pizza una cosa loro, che ha trovato quaggiù la sua massima espressione anche se a Napoli si sono inventati la Margherita? E che questo capita perché questa città è da più di cent'anni un tritacarne d'immigrati planetari, italiani compresi? Fugghedaboutit. Con i suoi dieci anni non potrebbe che mandarmi a cagare, anche se il suo babbo fa di tutto perché lui non impari a dire le parolacce. Il fratello più piccolo, che adesso di anni ne ha sette, non l'ha mangiata con migliore entusiasmo. Ma la fame e il piacere di contraddire il fratello maggiore hanno vinto le argomentazioni sulla qualità del formaggio.

No, un diario di queste giornate non avrei potuto scriverlo. A meno di non aver trovato nella cocaina un nuovo, e noto solo di fama, compagno d'avventure. In questi giorni ho guadagnato ancora un bel po' d'autostima per la mia confidenza con la città, ma in cambio ho perso la cognizione tradizionale del tempo. Le mie ore sono scandite dal mio nome. "Denis, che cos'è quello? Denis, quando andiamo a mangiare i burrito? Denis, quante fermate mancano? Denis, ma perché sei venuto a vivere qui? Denis, quando ci porti all'Apple Store? Denis, ma tu quali sport segui?". Un calcolo approssimativo ma ragionevole mi dice che quando il mio nome è stato pronunciato ottanta volte significa che è passata un'ora o giù di li. "Denis, ti posso fare due domande?". A me piacerebbe proprio tanto dire no, ma contemporaneamente un altro "Denis" è stato già sparato  e mi ha fottuto. "Denis, quando possiamo riascoltare la canzone di sleep Brooklyn?".
Sarebbe stato anche bello scrivere un diario. Penso al mio piccoletto che, giocando a palla con i figlioli del mio amico, adesso fa le prove di bilinguismo e inizia a ripetere "passa ball". Penso al più grande dei due ragazzini che vuole fare il vero newyorchese e, quando siamo in giro sulle strisce pedonali, mi strattona la mano per attraversare con il rosso mentre urla "Nu Yawk" con un accento da vero newyorchese che manco a Bensonhurst. Penso che suo fratello più piccolo, nonostante i cazziatoni che gli sto facendo quando parte in quarta noncurante di tutto quello che lo circonda come ogni gagno della sua età, un giorno non mi rinnegherà due volte. La prima perché al campo da basket più famoso della città (e quindi de lo Mondo Intero), la "gabbia" di West 4th Street nel Greenwich Village, sono riuscito ad interrompere un "uno contro uno" e a convincere i due giocatori a passargli la palla per fargli segnare un canestro memorabile. La seconda perché, mentre ascoltava estasiato due rapper esibirsi nella stazione della metro di Union Square e noi tutti perdevamo il treno, sono riuscito a convincere uno sconosciuto, spettatore pure lui, ad unirsi a me e ad incitarlo a ballare, cosa che poi il ragazzino ha finalmente fatto e abbiamo immortalato per sempre in un video (proprio per lui, che ama ballare il rap roteando sul pavimento di casa). Penso anche all'aperitivo che io e i due ragazzini, aspettando il rientro del padre da una corsetta serale, ci siamo regalati sulle panchine di Williamsburg davanti all'East River e alla città illuminata. Aperitivo a base di lamponi rossi, acqua, pita chips e pure qualche confidenza triste, come si conviene agli uomini di tutte le età.
Penso che nel diario ci sarebbe stato spazio per l'homeless (finto?) che davanti alle Nazioni Unite tira fuori dal suo giubbotto un iPhone e fotografa un gruppo di Ucraini lì a manifestare contro le bugie di Putin e dei media russi. O per il minuscolo tavolo al tranquillo ristorante tibetano di Jackson Heights, dove siamo riusciti a sederci in sei facendo un casino infernale e divorando dumpling e peperocino. O per il tizio che, in una tranquilla domenica e di nuovo a Williamsburg, ha provato a minacciarmi se non avessi tenuto a bada il mio piccoletto e il minore dei due fratelli, intenti a correre sul marciapiede, cosa che probabilmente lo mandava fuori di testa ancora di più di quanto già non lo fosse, il coglionazzo. Se solo al termine delle maratone giornaliere io riuscissi a conservare un minimo di energia, da qui a mercoledì prossimo, giorno in cui i nostri tre amici rientreranno a Torino, il diario potrebbe di sicuro trovare altro materiale. Ma sono così stanco che fatico pure ad andare a dormire. 
Mi sa che dovremo confidare tutti quanti nella memoria. 

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