08 agosto 2013

Il lungo lungo viaggio di Saturnino Farandola [ NYC #12 ]

"Papà, io ero convinto che abitavamo a Pechino". Come potrò dargli torto? Dopo qualche anno in America, forse l'italiano del mio figliolo non sarà dei migliori, forse il ragazzino non sarà proprio ferrato coi congiuntivi della sua patria d'origine, ma lo spirito d'osservazione non gli farà difetto, già lo so. Si sarà guardato attorno e avrà tirato le sue conclusioni: "stiamo in Cina, vero?".
Andare alla stazione della metro R oppure a quella della N per noi fa nessuna differenza: sono praticamente alla stessa distanza e vanno entrambe a midtown Manhattan, anche se la R ci arriva facendo un giro più lungo e attraversando il fiume dentro un tunnel, quando la N corre invece per il Manhattan Bridge prima di tornare sottoterra. Ma a parte il fatto che la N, per un tratto di Brooklyn, è un treno espresso (e già questo potrebbe bastare e avanzare per preferirla), la vera differenza è che mentre la più vicina stazione della R è ancora nel nostro tranquillo quartiere, Bay Ridge, la più vicina stazione della N si trova nel quartiere di Sunset Park. 
E Sunset Park è un Mondo a parte.
Basta attraversare l'autostrada  diretta a Staten Island, che divide i due quartieri e corre sotto la Settima Avenue, per cambiare completamente pianeta. Sul campo da calcio in erba sintetica, a qualunque ora del giorno, puoi trovare in contemporanea: ragazzi arabi o ispanici di tutte le età che giocano a soccer, gli allenamenti di football americano e le partite di baseball. Se due ragazzi si parlano in russo, quando uno sbaglia il cross l'altro gli urla "what the fuck!", tanto per farti capire che sono americani pure loro. Il campo da calcio si affaccia su due strade parallele. Sulla 66esima, ci sono una mezza dozzina di campi da tennis. Le reti stanno su a malapena ma ci sono, e i campi sono frequentati soprattutto da ragazze e ragazzi cinesi, che il sabato sera li trasformano in una sala da ballo all'aperto, dove la musica è latinoamericana. Lungo l'altro lato del campo, sulla 65esima, le macchine corrono sparate a qualunque ora del giorno, rallentando a malapena durante la notte, quando brilla qualche sirena della polizia. Ci sono alcune officine che promettono di riparare qualunque automobile, dalle Volvo alle Fiat, e dei mobilifici cinesi che pubblicizzano divani Natuzzi e li vendono pure. All'angolo con la Ottava Avenue inizia il viaggio: benvenuti nella Chinatown di Brooklyn.
Per almeno 20 isolati si incontrano quasi solo insegne cinesi e anche le grandi banche americane si adeguano con insegne per i clienti della zona. Secondo il "Daily News", con i suoi oltre 34 mila abitanti tra la Settima e la Nona Avenue quella di Brooklyn è ormai la più grande Chinatown di New York, avendo superato non solo quella storica di Manhattan ma anche quella di Flushing, nel Queens. L'Ottava Avenue è affollata tutti i giorni, ma nel fine settimana è difficile trovare spazio per camminare tra le bancarelle che riempiono i marciapiedi, ancora meno con un passeggino. Impossibile trovare posto in uno dei grandi ristoranti a due piani, dove le famiglie fanno la fila per entrare. Dalle vetrine delle tavole calde vedi ciondolare anatre laccate e pezzi di maiale arrosto. In una calda giornata le donne aprono i loro ombrelli di tutti i colori per proteggersi dal sole, lo stesso sole che aiuta la spazzatura a puzzare ancora di più, mentre i pescivendoli puzzano anche quando fa freddo e senza bisogno d'aiuto. Sputare è un gesto ovvio, banale, senza sesso, lo fanno tutti e ci fai presto l'abitudine. Se non trovi quello che cerchi tra le decine di fruttivendoli, puoi andare da Fei Long, che per tutta la lunghezza di un isolato ospita un grande supermercato, alcuni piccoli ristoranti e qualche negozio che vende di tutto, dalle bacinelle per lavare i piatti ai telefonini. Se non hai voglia di fermarti a mangiare in uno dei tanti locali e ristoranti, ed è difficile resistere a quei profumi, gli stessi locali ti offrono la possibilità di portarti a casa il pasto, in porzioni già belle pronte e in vendita sui banchetti che piazzano davanti alle vetrine. Tante le panetterie, dove si trovano i baozi, i tipici panini rotondi cinesi, dolci o salati, ripieni oppure no. Se vuoi farti sistemare le scarpe, c'è pure qualche calzolaio che lavora con un semplice carretto e i suoi attrezzi. Resiste un vecchio pub irlandese, il Soccer Tavern, ma ora la sua clientela è più varia. Nelle vie laterali puoi trovare carrozzerie dove sono in riparazione Ferrari o macchine della polizia, a fianco di magazzini dove le donne stanno sedute per ore alle macchine da cucire per produrre i vestiti che troverai ovunque in città: tutto alla luce del sole, in un caos indescrivibile di tessuti e scatoloni.
Quando sento la nostalgia di Porta Palazzo, il grande mercato di Torino, vengo a farmi un giro nella Chinatown vicino casa. Da bambino, spesso il sabato mattina mio padre mi portava a Porta Palazzo, al mercato dei contadini e a rovistare tra le bancarelle del Balôn, il mercato delle pulci. Adesso che sono padre anch'io, porto il mio piccolo a respirare l'aria di Chinatown. E ci divertiamo come matti. Quando tutta la famiglia decide di prendere la metro N alla stazione sulla Ottava Avenue, dove spesso anche l'addetto alla biglietteria è cinese, siamo gli unici non cinesi, nonostante lì vicino ci sia una succursale del Maimonides Medical Center, ospedale tra i più importanti di Brooklyn e che accoglie pazienti da altri quartieri. Quando la famiglia fa il percorso inverso da Manhattan, in direzione Coney Island, siamo gli unici non cinesi a scendere alla Ottava Avenue, a parte qualche raro turista che riconosci al volo. Si dice che sia stata la metro N, con la possibilità di traffici e spostamenti economici, a creare la Chinatown di Brooklyn e non è difficile capirlo: il treno ferma a Canal Street, nella Chinatown di Manhattan che si è via via mangiata Little Italy, lasciando solo qualche ristorante italiano per bocche ingenue su Mulberry Street. Con una popolazione cinese in espansione, e lo stesso numero di appartamenti, i prezzi per le case sono saliti di parecchio e tanti hanno deciso di muoversi verso Sunset Park. Adesso nella Chinatown di Manhattan, da cui è possibile prendere autobus economicissimi per raggiungere Boston, Philadelphia e Washington, vivono solo 28 mila persone e tanti ristoranti servono cibo buono per turisti con poco tempo in città e poca curiosità.
Per l'amica napoletana che fa finta di non amare così tanto Milano e vive sempre meno a Roma (ciao, P. cara), io penso solo al cibo. Non è la sola a pensarlo, fuori c'è la fila. A parte il fatto che se vivi a New York, e lei dovrebbe ricordarlo, impari in fretta che il cibo è una religione quasi quanto lo è per noi italiani; ci sono talmente tante cucine, e da ogni angolo della Terra, che ci vai letteralmente a sbattere contro, sono una parte scontata della vita quotidiana. E poi io mi sento investito (oh, si) di una funzione educativa importante: quale miglior modo per insegnare al nostro piccoletto il concetto di diversità? Si, va bene, gli leggiamo "What a Wonderful World", in tanti suoi libri ci sono bambini di tutti i colori e in uno ci sono pure due uomini che spingono un passeggino. Ma vuoi mettere quanto è più facile assaggiando e toccando il cibo? Non si discute, punto. Cucina malese? Provata. Libanese? Certo che si. Coreana? Ovvio. Yemenita? S-p-e-t-t-a-c-o-l-a-r-e. Nell'East Village c'è un ristorante georgiano (ex URSS, per capirci)? Si salta su un treno e si va.
La metro R, di nuovo lei, porta pure nel Queens. Se non hai tempo e denaro per girare il Mondo, il Queens è un'alternativa a buon mercato. Il Census Bureau dice che è il distretto di New York dove maggiore è la diversità. Nei suoi quartieri sono centinaia le nazionalità presenti e le lingue parlate. Decine e decine le cucine rappresentate, dalla liberiana alla uzbeka. Con la R, da casa nostra si può arrivare a Jackson Heights, la Little India. Ma se vuoi vedere qualcosa, e non farti addormentare dal rollio del treno, è più divertente fare il viaggio in macchina. A dire il vero, una volta entrato nel Queens, il treno corre in sopraelevata, però così ti perdi i colori delle strade sottostanti e il casino infernale delle carrozze che sferragliano mentre tu guidi nell'ombra creata dall'interminabile via metallica sopra la tua testa. Per evitare di rimanere bloccati in autostrada, cosa pressoché certa a qualunque ora del giorno, se arrivi da Brooklyn puoi affidarti a Bedford Avenue e a Flushing Avenue, che ormai sono note pure a me.
La Little India del Queens si trova sulla 74esima Strada a Jackson Heights, dove occupa giusto un isolato o poco più, cercando spazio anche nelle vie limitrofe. A parte i ristoranti e i bazar di frutta e verdura, saltano all'occhio le gioiellerie e i negozi di abbigliamento femminile, con sari ed abiti tradizionali di tutti i colori. Non c'è partita: le donne indiane battono quelle arabe e quelle cinesi. Al naso saltano i profumi di spezie, che io non saprei nominare ma che associo alla cucina indiana. Sulla 73esima la grande insegna "Bangladesh Plaza" ricorda che quassù non ci sono solo gli indiani. Facile (si, facile) trovare ristoranti nepalesi o himalayani. Ma noi andiamo a colpo sicuro, sulla corta 37esima Road cerchiamo Phayul, il ristorante tibetano per cui ci siamo fatti quasi venti chilometri in un'ora. Trovare parcheggio lungo la strada, che è pure a pagamento, è solo una pura questione di culo (si, si può dire). Un ingresso stretto, appena visibile dalla strada, porta alla scala che conduce al primo e unico piano di una palazzina modesta. Una tenda separa il ristorante dal minuscolo pianerottolo su cui si affaccia anche il salone di acconciature per signora. La stanza luminosa che accoglie tutto il ristorante è piccola, ci stanno appena cinque tavoli, la cucina a vista e la cassa. Ci accomodiamo al tavolo dove sta pranzando un papà con la sua bimba. Alla parete dietro la cassa non manca la foto di Tenzin Gyatso, il Dalai Lama. Sembra di essere ospiti a casa di qualcuno. Tutti sono gentili e sorridono al nostro piccoletto. Lui, in braccio alla mamma, osserva la signora che sta preparando i ravioli di carne. Il seggiolone non lo attira, preferisce mangiare i suoi noodle stando sulle mie ginocchia. La carne di manzo è tenerissima e il maiale con l'erba cipollina sfida la mia crescente abilità con le bacchette. Sbirciamo il tavolo dei vicini e ci facciamo portare lo stesso pane che stanno mangiando loro. Mica scemi, è proprio buono, soffice e cotto al vapore. Torneremo, è sicuro.
Nonostante la Little India sia a Jackson Heights, per vedere un vero tempio indiano bisogna fare ancora cinque miglia verso est e andare a Flushing. A Bowne Street la comunità indiana, quasi 100 mila persone, può trovare un tempio rinnovato e ingrandito dopo il 2010, riconoscibile dalle cupole e dalle miniature esterne. Dopo aver attraversato il corridoio esterno, mi tolgo le scarpe ed entro nella grande sala. Al centro c'è quello che mi sembra il santuario principale e attorno ad esso c'è un uomo che cammina e prega. Al fondo della sala, sulla sinistra, una piccola cella dove un sacerdote sta compiendo un rito accompagnato da una nenia senza sosta. Lungo il perimetro della sala ci sono le piccole celle per trenta diversi "deva", le divinità cui è dedicato il tempio, davanti alle quali i fedeli si fermano a pregare (sono l'ultima persona a poter parlare di religioni, quindi nessuno si senta offeso se le descrizioni sono imprecise). Fuori ci sono ancora i cantieri dei lavori in corso e i cartelli invitano i fedeli a non eseguire la rituale spaccatura del cocco all'interno del tempio ma all'esterno.
Dopo una sosta presso un piccolo locale che propone specialità dal Sud dell'India, un altro dissetante lassi salato, e dopo che il nostro piccolo ha socializzato con un suo coetaneo indiano, è tempo di rientrare alla base, il pomeriggio è stato davvero lungo. Dal poco distante ed esageratamente ricco quartiere di Forest Hills, con le sue grandi ville in stile Tudor, raggiungiamo Atlantic Avenue, passando per quartieri dormitorio più simili a ghetti, come East New York, dove vedi case diroccate e con i tetti distrutti. Andando vero sud lungo la Quinta Avenue a Brooklyn, prima di arrivare a Bay Ridge, attraversiamo di nuovo Sunset Park, e questa volta tocchiamo la sua Little Mexico (ma ci puoi trovare anche mezzo Centro e Sudamerica). Ci veniamo di tanto in tanto, per le dolci conchas, le macchine che strombazzano, quelle che in doppia fila bloccano l'autobus, le limonate, il parco dai cui si gode una vista mozzafiato su Manhattan, le facce da gangster fuori da alcuni negozi (dice che la mafia messicana qui sia forte). Little Mexico è uno di quei posti dove si possono trovare tavole calde che espongono la grande lettera C arancione in vetrina, cioè il punteggio più basso assegnato dall'ufficio d'igiene newyorchese dopo la periodica ispezione sanitaria. La lettera A blu vuol dire che tutto è in regola, la B verde che puoi migliorare, la C arancione che dovresti migliorare assai ma puoi stare comunque aperto e se hai dei clienti, beh, buon per te.
Per qualche settimana New York sarà lontana. Ci attendono un po' di tappe e un lento viaggio verso Miami prima di tornare a casa. Take care.


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