06 febbraio 2010

AD OCCHI CHIUSI

Un venerdì sera

“Hey! Manca il quarto!!”, urlo.
“Vieni!!”.
Non me lo faccio ripetere due volte. Mentre siamo fermi al semaforo, mi butto fuori dalla macchina e corro verso di loro.
Occhio e croce saranno tutti ventenni o poco più. Tre ragazzi e quattro loro amiche, tutte con la macchina fotografica o il cellulare, pronte a immortalare la scena. Quel tratto di strada è deserto e i ragazzi scimmiottano i Beatles sulle strisce pedonali.
“Ma dai, non potete fare Abbey Road in tre, e che diamine. Forza!”.
“Sei un grande! Come ti chiami?”.
Non lo so come saranno venute quelle fotografie. Ma vuoi mettere lo sfondo di Palazzo Reale in piena notte?
“Ti sei fatto dare la foto?”, chiede Paoletta. “No, son venuto via così, mi basta ricordare”.
Appena le tre di notte e siamo già a farci il cappuccino. Non ci riusciamo proprio più a star dietro alle tendenze, alternativi nostro malgrado. Arriviamo troppo presto alle serate e ce ne andiamo quando i locali scoppiano di corpi sudati.
Siamo in piena “downtown”, anche se Papaciccio aveva chiesto espressamente di fermarci in un bar di periferia. A dir la verità, lui stasera avrebbe desiderato tutt'altro. Usciti con l'idea di tuffarci in una notte a base di “dubstep”, lo abbiamo trascinato in mezzo alla “techno funk” di due dj berlinesi. Tutto molto “cool”, la musica e, soprattutto, la ragazza che ho notato all'ingresso. O forse era un “girl” e quella era una “door”.
Nulla è andato come da programma, stasera.
Dopo cena l'orologio avverte che sarebbe criminale passare a giocare coi piccoli a quell'ora, e l'esperienza mi fa tremare al pensiero dell'aspettativa che avrà creato in loro il papà.
Ma il mio senso di colpa oggi è bulimico.
L'avevo segnato in agenda, proprio per non dimenticarlo. Ero stato pure invitato, l'avevo richiesto quell'invito. E solo prima di mezzanotte mi accorgo che lo spettacolo teatrale diretto da un mio amico sarà finito da un pezzo. Devo fare qualcosa per la mia memoria. E chissà dov'è la mia testa. A volte nemmeno vedo quello che ho davanti al naso.
Dicevo?
La birra era come la desideravo: fredda e dal sapore insignificante. I suoni vanno oltre l'immaginato, ma dopo due ore non ci divertono più. Papaciccio, incurante della folla, va verso il bar. Io e Paoletta pensiamo sia stolto, ma forse è solo sete. Mentre difendiamo la colonna cui ci siamo appoggiati per sempre, inizio a giocare con gli occhi della ragazza che mi sta di fronte. L'amico che parla con lei se ne accorge e, dopo un po', mi dice ridendo: “siete anche voi qui per le pastiglie?”.
Gattaccio, perché non sei qui? Ora servirebbe una delle tue risposte alienate. Nel fiume umano dei Murazzi tossici e notturni, alla richiesta di una cartina tu rispondesti: “dove devi andare?”.
Ma io non sono così pronto. Riesco solo ad alzare le guance e dirgli no. Nel mezzo delle luci colorate, del frastuono e dei suoi limiti, non credo che abbia colto il sarcasmo della mia smorfia.
Mica sono moralista per davvero, ci mancherebbe altro. E capisco pure che qualcuno abbia bisogno d'aiuto per sopportare questo ritmo ossessivo e divertirsi.
Sono solo curioso. Dov'è finita la capacità di fantasticare da soli?
Eppure, è così semplice, come in un bacio.
Si, basta solo chiudere gli occhi.

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