14 ottobre 2009

MONDI INTORNO A UN TAVOLO

La sera prima di un esame

Hai voglia a dire che non sono nervoso. Ho inseguito questo appuntamento per mesi e ora il momento è arrivato, non c'è più tempo per scherzare. Certo, non mancano le ragioni per essere ottimisti, abbiamo argomenti validi a sostegno della nostra proposta. E non manca una certa dose di incoscienza, il desiderio di spiazzare tutti con la finta ingenuità del teorema che andremo a dimostrare passo dopo passo. Ma adesso posso negare di sentirmi gli occhi addosso e di avvertire il peso reale della responsabilità? Io, che non brillo per indole diplomatica, che cerco cause perse in partenza per poterle difendere senza successo; io che ho buttato all'aria impieghi tranquilli solo per non aver saputo ricacciare la lingua in gola e non essere stato capace di vegetare fino al ventisette del mese senza far sentire i miei capi dei coglioni in situazioni importanti? Dovrei essere io quello che va a far esercizio di moderazione? Io, che vedo re nudi dappertutto, dovrei essere quello che imbastisce la trattativa per arrivare al compromesso e portare a casa un risultato magari modesto ma tangibile? Avanti miei prodi! E, se indietreggio, fucilatemi! Oh, si fa per dire, miei prodi... Che è 'sta mania di prender tutto alla lettera??
“Prof... si, io ho preso la sufficienza per tutto l'anno... si, a me è piaciuta eccome la biochimica... si, certo, eravamo solo in tre su ventitré ad avere la sufficienza... e tra gli altri venti ci sono delle belle teste, gente che ha 7 e 8 in tutte le materie... si, insomma... forse hanno ragione anche loro, no? Forse anche lei prof, forse avrebbe dovuto...”. Meno di dieci giorni e la tabella degli scrutini dice che sono stato rimandato in chimica. Diamogliela un po' la lezione al pivello che non ha ancora imparato a guardare solo il suo pisello e a stare muto. Risultato di tanto sforzo pedagogico? L'anno successivo mi sono candidamente rifiutato di studiare un paio di materie a caso, e italiano e latino facevamo proprio al caso mio. “Signor Spedalieri, Denis è stato l'unico a prendere l'insufficienza all'interrogazione programmata di latino. Quella programmata, Signor Spedalieri, cioè... sapeva in quale giorno sarebbe stato interrogato...”. Nemmeno giorno il giorno del colloquio con il prof. mio padre ha trovato la forza di fucilarmi. Forse sperava che potesse levargli l'imbarazzo, di lì a qualche mese, il mio compagno Vittorio. A cinque minuti dalla campanella di una normalissima fine giornata, il prof. d'italiano ci chiama per vedere se avessimo almeno un'idea pallida di chi fosse Foscolo. Stava quasi per freddarci, quando la campanella gli ha bloccato la mano e lo ha reso clemente: “va bene, ci vediamo domattina e riprendiamo dalle Grazie”. Ricordo un piacevole pomeriggio e ricordo che Foscolo non venne a trovarmi, nemmeno in sogno. Al mattino seguente, come volevasi dimostrare, scena muta. Il prof, infuriato, manda tutti a posto, Vittorio compreso. Non era certo uno studente modello, Vittorio, tutt'altro. Ma lui, almeno quella volta, la lezione su Foscolo se l'era preparata per bene e, incolpevole, era stato sotterrato nei Sepolcri insieme a me. Meno male che negli anni successivi si è trasferito a Londra e non è diventato magistrato, altrimenti sulla mia testa ancora penderebbe un mandato di cattura internazionale.
Penso al plotone d'interrogazione che dovrò ammaliare nelle prossime ore per portare a casa il nostro agognato progetto. Si, è una missione possibile, ma io sono nervoso e me ne sto in ascensore con il mio fascio di pensieri ingombranti. Il papà di Antonio viene ad accogliermi sulla porta di casa, lo saluto e corro subito in cucina, dove la mamma sta preparando la cena con una signora peruviana (di cui non riesco ad afferrare subito il nome) e una ragazza nigeriana, Antonia, alle prese con un piatto di riso alla maniera del suo paese. Antonia ci tiene a fare bella figura e questa cena, quasi all'ultimo minuto, è stata organizzata per presentarcela e darle la possibilità di dimenticare, almeno per una sera, i guai che una legge inumana e insensata sta creando a lei e a tante persone nella sua stessa condizione.
Lascio le cuoche ai loro affari e raggiungo Antonio in sala da pranzo. C'è Jeffrey, il figlio di Antonia, e avvicinandomi riconosco già sulle sue piccole mani il profumo inconfondibile di Silvia, che lo sta tenendo in braccio dopo una giornata di lavoro trascorsa al nido a tenerne in braccio sicuramente almeno un'altra dozzina. Non ho ben capito se Jeffrey stia per Jefferson o Jeff, e nel tentativo di seguire profumi e sensazioni mi sono perso il cognome. Forse è Mills, come uno dei padri afroamericani della musica techno. Quando non sta in braccio a Silvia per farsi grattare i capelli corti e crespi, Jeffrey corre veloce attorno al tavolo, costringendo Antonio a spostarsi in continuazione per impedire che il bimbo si stampi contro la sua carrozzella. Con tutta l'energia e l'ovvia innocenza dei suo 17 mesi, non sa che quella che ruba dalle ginocchia di Antonio non è proprio una palla per giocare. Butto l'occhio sulla scrivania e vedo uno dei libri di Shakespeare per i quali Antonio deve scrivere un'introduzione. E sorrido di nascosto pensando al pomeriggio che gli feci buttare un paio d'anni per aiutarmi a tradurre una roba ai limiti del comprensibile, che non mi serviva nemmeno direttamente, ma... lasciamo perdere.
A metà cena ci raggiunge Fernando, peruviano pure lui e presenza, che pur ridotta rispetto alle intenzioni, è insostituibile al fianco di Antonio. Sorridente, con modi sempre più aggraziati, quasi a non volersi più nascondere almeno tra persone fidate, scherza con Antonia dicendole che la sua pettinatura gli ricorda Hello Kitty. Ha con se peperoncino fresco e mais fritto. Sulla stessa tavola, oltre alle bottiglie di barbera, ci sono già il riso nigeriano, del pollo, il polpettone, l'insalata di carciofi. E poi arrivano olive, caciocavallo, uva e torta.
Jeffrey passa tutta la serata sulle gambe di Silvia, mette le mani su qualunque cosa che sembri anche solo lontanamente mangiabile, porta alla bocca la metà di quello che transita sotto i suoi occhi e l'altra metà la spalma sul tavolo o la scaraventa con precisione a terra. Nonostante le apparenze contrarie, esaurisce le pile ed entra all'improvviso nello stato semi-catatonico che precede per qualche minuto la sua nanna più profonda. Salutiamo la famiglia C. e, dopo aver incastrato il passeggino-senza-chiusura in macchina, accompagniamo a dormire Antonia e la sua creatura.
Come al solito, parcheggio la macchina distante, dalle parti del deposito dei tram, e ne approfitto per farmi una passeggiata con le emozioni che mi ha lasciato la serata. Penso che l'eterogenea tavolata di questa sera (si, è triste, ma penso proprio alla parola “eterogenea”, e poi “variegata”, o “composita”), beh si, quella tavolata avrebbe potuto sbeffeggiare la patetica famigliola del Mulino Bianco. E poi penso a delle cose politicamente scorrette e divertenti, che nonostante io faccia finta d'essere un duro, non voglio mettere qui, nero su bianco (o bianco su nero).
Quando arrivo a casa, apro il computer e cerco il significato del nome Antonia. “Che combatte, che affronta”.
Ascolto un po' di musica e aspetto che passi la nottata.



Ain't nothing gonna break my stride

Nobody gonna slow me down, oh no
I got to keep on moving



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