27 marzo 2015

La Magnifica Ossessione [ NYC #47 ]

O di quante cose puoi fare per appartenere alla tua nuova città


"Ho appena finito la mia passeggiata di 17 km, forse anche 18, bòh. In sole, si fa per dire, sei ore. E mi sono fermato a mangiare due toast su una panchina davanti alla City Hall e poi a comprare tre regali: uno per me, uno per la Ragazza Dai Capelli Rossi e uno per il nostro Piccoletto. Si, ho fatto anche una sola sosta tecnica in una biblioteca, per fare pipì. E cammin facendo ho fatto pure due lunghissime telefonate". Runtastic dovrebbe raccontare anche cose così. Per questo non la uso, oltre al fatto che correre sia contro la mia religione. Comunque, nonostante mi piaccia passeggiare per ore, per la mia religione non sarei in grado di concepire camminate più impegnative tipo, che ne so, il Cammino di Santiago. E non solo perché io e la fede non siamo nemmeno lontani parenti.
A pensarci, sono sempre più convinto che quel che potrei fare, invece, è la guida turistica qui a New York. Si, potrei fare la guida come passatempo, di tanto in tanto. Ma non quella tradizionale, tipo quella che fa da cicerone al MoMA o quella che porta a spasso con la bandierina. Turista italiano che arrivi in città con le tue valigie di memorie musicali o cinematografiche: hai in testa quella copertina dei Ramones e sai che aveva a che fare col defunto CBGB? Nella tua stanza hai appeso da decenni il poster di Woody Allen in "Manhattan"? Facile, con due parole su Google ci metti un attimo a trovare da te quel perduto angolo di punk e andare laggiù per il tuo meritato autoscatto. Così come potrai vedere che la panchina di Woody Allen non c'è più. Ma se vieni a fare due passi con me, negli stessi luoghi, giuro che ti diverti di più. Anche questa può essere fede. Vuoi camminare lungo la Quinta Strada e buttare l'occhio dentro le vetrine più famose? Va bene. Ma se vuoi, risalendo la stessa strada davanti a Central Park, ti posso fare buttare l'occhio dentro un seminterrato di lusso. E se ti fidi di me, mentre aguzzi un po' la vista, riesco anche a farti vedere i molari del paziente di quel dentista che proprio in uno di quei seminterrati ha il suo studio medico. No, non ti porto in giro a gratis, non è il caso. "We're only in it for the money", lo diceva pure Frank Zappa.
Sempre avuto l'ossessione per le città in cui ho vissuto o anche solo trascorso più tempo del solito. Detta così, manco fossero pagine e pagine d'elenco. Trascorso il grosso della mia vita a Torino; poi per due anni buoni, come intermezzo alla fine degli anni '90, sono stato più a Roma che a Torino; adesso, da poco più di due anni, buoni pure loro, vivo qui a New York. Nel mio elenco delle città meritevoli d'ossessione, a dire il vero, c'è spazio anche per Pavia, Piombino e Napoli. Ossessione significa che mi sono sempre andato a cercare anche i dettagli di quei posti, dalla storia cittadina ai ristoranti, passando per i mercati delle pulci o i cortili semi sconosciuti. Credo sia una specie di eredità indiretta lasciata da mio padre. Indiretta perché non credo che lui potesse immaginare quale piccolo mostro avesse creato portandosi dietro quel bimbo al Balôn o a consegnare materassi in giro per Torino e dintorni. Nell'evoluzione c'ho messo un bel po' del mio.
Troppo scontato essere stato ossessionato dalla mia città natale. Ma scoprire angoli ignoti anche alla maggior parte dei romani o dare indicazioni stradali a Napoli mi rendeva orgoglioso. Non cercavo un senso d'appartenenza al luogo dove magari mi capitava di risiedere solo per un po', perché mi sentivo in tutto e per tutto un torinese. Era semplicemente una forma di profondo amore, anche se non incondizionato. Quell'amore che spesso, per chi la propria città la abita da sempre, rimane nascosto sotto l'abitudine.
Adesso che ho lasciato l'Italia, invece, mi accorgo che è proprio un senso d'appartenenza quello che cerco. A parte tutto ciò che è legato alla storia americana in generale, divoro libri e libri sulla storia di New York, lunghe ore di documentari che sarei in grado di rivedere all'infinito. Con voracità cerco di costruirmi, se non una più profonda identità newyorchese, per ora prematura, almeno un immaginario che vada ben al di là non solo della città stereotipata, cui un semplice turista fa riferimento, ma anche della città ridotta a insieme di quartieri, che spesso è la regola nelle metropoli grandi come questa. A Torino, almeno quando avevo i miei vent'anni un quarto di secolo fa e San Salvario era solo un anonimo quartiere vicino alla stazione, era normale andare a cercare ristoranti a chilometri da casa tua, in giro per la città tutta. A Roma, che pure è assai più piccola di New York (a meno di voler inseguire per le campagne i suoi formali confini amministrativi) mi stupivo che tanti pariolini non mettessero il naso fuori dal loro mondo, e non erano soli. Qui non è così diverso, e forse per la prima volta capisco davvero molti romani. A Brooklyn, giusto per fare un esempio, le tante famiglie benestanti che vivono a Park Slope è difficile che mettano il naso già solo nel vicino quartiere di Prospect Heights, figurati se prendono una metro per andare nella nostra vecchia Bay Ridge.
Allo stesso modo in cui, per costruire la mia nuova appartenenza, consumo pagine e pagine sulla figura leggendaria di Fiorello La Guardia, o sulla storia dei sanguinosi scontri tra irlandesi e afroamericani, su quanto fossero miserabili le condizioni di vita degli immigrati ebrei nella Lower East Side o sulle scelte urbanistiche che per decenni sembravano aver condannato per sempre il Bronx, consumo anche le mie suole coprendo chilometri e chilometri, di luoghi che sembrano dimenticati e anche solo di strade di cui seguo il flusso senza particolare meta. E così che scopro per caso vecchie fabbriche che aspettano nuove speculazioni lungo la baia o improbabili caffè dentro chiese svedesi. Non mi invento nulla, sia chiaro: condivido con tanti altri quello che sembra dimenticato o nuovo. In città come questa è abbastanza normale non alzare la testa, non degnare d'attenzione il tuo vicino, nemmeno quando sembra morto sul divano, o passare accanto alla stesso posto per mesi senza chiederti minimamente cosa sia. Quindi può capitare che, per puro caso o curiosità, tu finisca per conoscere qualcosa di cui qualche altro milione di umani che vive lì a due passi da te non sospetti manco l'esistenza.
La quantità di cose che sono ignote alla stragrande maggioranza o che possono essere conosciute è ovviamente un bene per l'economia di questa città: cultura, intrattenimento, ristorazione, comunicazione e turismo competono su mercati, spesso pure sovrapposti, dove è maledettamente difficile essere notati ma dove si aprono opportunità in continuazione. Se non puoi nemmeno giurare che lo stesso ristorante o la stessa sala per concerti esisteranno o saranno nello stesso posto fra sei mesi, figurati se non ci sarà sempre spazio per guidare alla scoperta della città e per vendere prodotti nuovi, anche e soprattutto tra chi in questa città ci abita. Dozzine di guide online o riviste cartacee o trasmissioni televisive sono rivolte esclusivamente ai newyorchesi, e ogni giorno ti informano sulle ultime novità; e magari a distanza anche solo di qualche mese pubblicheranno le stesse notizie, non più nuove, ma per nuovi pubblici. Poi il turista che voglia spendere poco o quello che cerchi circuiti all'apparenza insoliti, non avrà bisogno di venire quaggiù per trovare informazioni di prima mano e non gli servirà consultare le fonti locali. Il turista troverà anche nelle librerie della sua città di provenienza una guida di New York fatta apposta per soddisfarlo: alcune sono buone traduzioni (spesso non dichiarate...) di prodotti già esistenti sul mercato quaggiù, altre sono solo pessime guide con buone intenzioni.
A volte anche per il newyorchese alla ricerca di novità o cose sconosciute la prospettiva non è diversa: nel fiume di notizie su quello che fa tendenza o sui segreti della città, cui è davvero difficile stare dietro, c'è anche una discreta quantità di roba riciclata o fasulla, spesso scritta dai nuovi arrivati e spesso per i nuovi arrivati, soprattutto giovani ventenni alla ricerca di successo. Tutti concedono che, prima o poi, chiunque sia stato un nuovo arrivato in questa città o che le nuove generazioni vedano per la prima volta quello che le vecchie non notano più. Ma quando i nuovi arrivati provano a venderti qualcosa come autenticamente newyorchese, vengono prima sbugiardati e poi fatti oggetto di sarcasmo da parte dei "veri" newyorchesi. Nell'epoca del confronto incrociato su internet funziona così. Allo stesso tempo, tra i tanti auto-proclamati "veri" newyorchesi sarcastici, non sarà difficile trovare quelli che non si avventurano oltre i pochi isolati da casa loro (a parte il quotidiano viaggio in metropolitana, dove battono chiunque nella conoscenza ossessiva del punto della banchina dove posizionarsi nelle ore di punta). E così via, senza fine.
In questa terra di immigrati, se sei in città da pochi giorni o da qualche decennio, comunque, fa poca differenza. Teatri, squadre di basket, ristoranti, club, tutti hanno bisogno di te. E si sbracciano per essere visti, per essere ricordati, per sorprenderti e ricevere il tuo denaro. All'inizio non capivo come, in tempi di applicazioni online pronte ad aggiornarti al secondo o di siti internet consultabili gratuitamente, ci fosse ancora uno spazio residuo non solo per la versione cartacea di giornali come il New York Times ma anche per riviste come Time Out o Village Voice. Insomma, il mondo della carta stampata è in crisi un po' ovunque e il settore dell'informazione in generale non sembra stare meglio. Ora, invece, mi è tutto più chiaro. Se vuoi sapere davvero cosa avviene in città puoi sicuramente cercarlo sul tuo smartphone ma sarà meno efficace di quel che credi, perché ti perderai sempre qualcosa in quei pochi centimetri. E con un computer non è poi così diverso: difficile che ti metti ad aprire ogni sotto menù, ti rompi le scatole ben prima e cambi sito. Con un giornale è diverso. Le pubblicità di quello spettacolo a Broadway o l'articolo con l'ultimo elenco dei nuovi bar a Bushwick ti inseguono anche se tu ti dimentichi di cercarli, e l'occhio lo butti, a patto che tu ti sia almeno ricordato di procurartelo, quel giornale. Nello specifico newyorchese, annunci e articoli ti vengono a ricordare, mentre sfogli le pagine e segui un flusso di carta che ti è familiare fin da quando sei bimbo, che non per niente questa città è considerata fuori dall'ordinario. E tu devi approfittarne, che cavolo! Insomma, qualche dollaro per quest'informazione puoi anche spenderlo senza andare in bolletta, almeno una volta alla settimana, quando il New York Times pesa qualche chilo e non bastano le giornate successive per leggerlo tutto. E se qualche volta proprio non vuoi spendere nemmeno quei pochi dollari, lungo la tua strada o in una biblioteca troverai sempre delle riviste gratuite che avranno qualcosa per te: che tu sia un nightclubber, un genitore gay o (semplicemente) alla ricerca di un corso di storytelling.
Che poi nel mio caso La Magnifica Ossessione per la ricerca di informazioni, dati, storie, indirizzi e presunti segreti cittadini, con l'accumularsi ovunque per casa di giornali e carta varia, possa mettere nel tempo a repentaglio la convivenza con il resto della famiglia, questo è un altro discorso.








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