26 luglio 2012

LA VECCHIA SIGNORA

"Scusi...", mi dice mentre sto per svoltare l'angolo.
Si tiene stretta alla sua stampella ed è appoggiata al muro del supermercato. A terra ci sono due sacchetti della spesa. Guardo l'orologio per capire se sono in ritardo. Anni fa una signora mi chiese se potevo aiutare suo nipote a portare una lavatrice al terzo piano. Questa volta mi è andata di lusso.
"È qua vicino, facciamo presto... Deve andare al Valdese? Se vuole c'è mio figlio che ci lavora...".
Afferro le borse e le dico che non è il caso.
Trecento metri sono sufficienti per riassumere una vita, soprattutto se il passo non è veloce.
Ha 88 anni e, dopo ben più di mezzo secolo a Torino, parla ancora in calabrese, anche abbastanza stretto. Il marito era piemontese, però, e faceva il trasportatore. Appena il bell'uomo la vide, vicino Rosarno, s'innamorò di lei e ne chiese la mano ai fratelli, sottoponendosi pure al vaglio d'un loro amico carabiniere.
La signora non ne vuole sapere d'andare a vivere a Pecetto, dove uno dei suoi figli ha un bel ristorante. Certo, a suo dire, la nuora è una ragione sufficiente per non spostarsi; ma lei, comunque, ha sempre vissuto nel quartiere e qui vuole rimanere.
Poco prima d'arrivare a destinazione, la signora incrocia una ragazza slava. Non ho capito bene, forse fa le pulizie nel suo palazzo. Di sicuro, manco a dirlo, non le sta proprio simpatica.
Il portone, maestoso e in legno, è di quelli capaci d'ingannare, forse anche per la vicinanza con dimore di gente ricca davvero. Ma appena nell'androne, la modestia è dappertutto. La signora saluta una donna in cortile e, un secondo dopo, mi dice che non le piace, perché spesso se ne sta sul balcone in mutande e viene a farle visita il suo mantenuto.
Sembrano almeno sei, ma sono solo quattro piani senza ascensore. Mentre la signora si riposa in cortile, porto su le borse e le lascio sul pianerottolo.
Quando scendo, non la vedo più. Dopo qualche istante, sbuca con una mezza sigaretta accesa e mi ringrazia per averla accompagnata a casa.
Prima di salutarla, le raccomando di prestare attenzione a chi chiede aiuto, ché non si sa mai. Mi squadra, ride e, agitando la stampella, mi dice che lei è ancora forte.
Certo, mai avuto dubbi.

APRITI SESAMO

Il preparato è di quelli per il risotto. Che differenza fa se voglio usarlo con gli spaghetti? Nessuna: alla fine, sempre di pesce surgelato si tratterà.
Peccato che la nostra dispensa sia priva di spaghetti, a parte quelli integrali, che non puoi chiamare davvero spaghetti.
Quindi, si torna al riso, ché almeno quello è in abbondanza, come nelle cascine lungo il Ticino o lo Yangtze.
Forse, prima, avrei dovuto preparare un brodo, magari con quei gusci di gamberi che teniamo in freezer proprio per queste evenienze. Non l'ho fatto, amen.
Ad ogni mestolo d'acqua, si capisce che il riso non si accontenterà del sale che gli sto buttando dentro. Allora apro di nuovo il frigo, e giù con zucchine e qualche pezzo di pomodoro.
Il colore ora è più convincente; ma di sapore, manco a parlarne.
Il peperoncino della zia? Bene. Il prezzemolo? Pure.
Nuovo assaggio.
A parte che siamo lontani dalla cottura, predomina l'insipido.
"Senti... com'è che si chiama quella salsa di coso... si, dai... quella di soia, ma col nome... Tamiami?".
Ah, no, era tamari.
Almeno la soia giapponese sarà salata? Si, ma ancora non va.
Cassetto, ecco quello che ci serve: goju karu. "Questa roba coreana è potente, eh?".
Abbondare.
Sorpresa dal frigo: goju jang. "Guarda il colore... Fichissima questa marmellata".
Abbondare.
"Che ne dici? Altra tamari? Ma si...".
Lo stiamo perdendo, lo stiamo perdendo...Acqua, acqua, acqua, ché si sta attaccando in ogni dove!
Salvo, per puro miracolo.
Tavola.
Il piatto è bollente, ormai è un parente lontano del risotto ai frutti di mare.
Dev'esserci qualcosa di metaforico in tutto questo, si, sarà un segnale.
È piccantissimo, in puro stile asiatico imbastardito alla maniera di San Francisco.
Dell'olio di sesamo non potrà che rinfrescarlo.

25 luglio 2012

GRANA GROSSA

Avrà sei anni o giù di lì.
Credo sia il figlio dei ragazzi nigeriani della videoteca, o forse della donna del saloon afro.
Inforca la sua bicicletta con foga da scattista e si schianta a terra, giusto davanti ai miei piedi, evitando per un soffio il palo della sosta lungo il marciapiede.
"Vuoi una mano", gli chiedo.
Mi guarda e non risponde.
Mi allontano, ridendo all'indirizzo di uno che fa pure lui il palo poco più in là.
Sento alle mie spalle qualcosa che si avvicina velocemente.
"Non avevo bisogno d'aiuto!".
E mo' che gli dico? Niente, ragazzino, sai il fatto tuo.
San Salvario è assonnata, come ogni pomeriggio d'estate. A parte gli spacciatori incollati alle auto e un gruppo di rumeni nel dehor improvvisato d'un bar, sembra che ci sia nessuno in giro. Penso che anche gli alpini davanti alla sinagoga vorrebbero abbandonare il blindato e cercare un albero.
Io, invece, cerco del bulghur e in tasca tengo i soldi come i bambini che vanno a far le commissioni. Devo prenderne due chili, si sarebbe meglio.
Il negozio bio è chiuso. Meno tre.
Il ragazzo del Bangla Market nemmeno capisce cosa gli sto chiedendo. Tranquillo, gli faccio con la mano, cerco da me tra gli scaffali. Nulla, solo cous-cous. Meno due.
Al negozio indiano stanno scaricando la merce. Fagioli e lenticchie di tutti i colori, ma il bulghur non c'è. Meno uno.
Vabbé, è destino, devo allungare la mia strada di almeno duecento metri.
Il maghrebino ha tutto, anche la carne o il formaggio che arriva da Parigi. Ovvio, c'è anche il bulghur.
Il prezzo sui pacchi dice due euro. Non so perché, ma batte uno scontrino da tre e sessanta.
Non ho la forza per chiedere, e nemmeno mi interessa così tanto.
Non farò la cresta, adesso voglio solo la mia acqua frizzante.