24 ottobre 2014

=ƎE= [ NYC #39 ]


Il calore di una cucina speciale ad Harlem

A New York il "kale" è onnipresente, un po' come la gramigna o il prezzemolo. A Brooklyn — megafono universale di tutto ciò che è biologico, artigianale e mecca del "Farm To Table" — non c'è ristorante alla moda o bistrò o finanche caffè che non abbia nel suo menù una generosa insalata o almeno un contorno a base di cavolo riccio. Quando il caffè è tostato direttamente dove lo consumerai e il cavolo riccio si confonde in mezzo alle specialità della casa, puoi stare certo che in quel quartiere la gentrificazione non la fermi più. Questo fenomeno maledetto o benedetto a seconda dei punti di vista — e per il quale con l'arrivo di famiglie ricche in un quartiere storicamente povero si innesca una spirale che, trascinata dall'apertura di locali di tendenza, attira sempre più famiglie ricche nel quartiere e rende proibitivi i costi per i vecchi residenti — ha toccato da tempo anche Harlem. Il quartiere non ha pianto per la partenza della Fondazione dell'ex presidente Clinton, che qui sulla 125esima qualche anno fa aveva aperto uno specchietto per le allodole sotto forma di ufficio. Ma ogni mese piange la chiusura di una vecchia "bodega" che non riesce più a rinnovare il suo contratto d'affitto. Nonostante sia ancora possibile sedersi da "Sylvia", leggendario ristorante soul food su Malcom X boulevard e ordinare un contorno di tradizionali "green collard", un cavolo dal gusto forte, ad Harlem la gentrificazione procede spedita, con tanto di cavolo riccio per noi borghesi bianchi. Mai, però, mi sarei aspettato di trovarlo anche nella mensa popolare del quartiere. Signore e signori, benvenuti nella cucina della Food Bank di New York City.

Mi piacerebbe venire qui con più regolarità, ma la verità è che raramente la mia organizzazione quotidiana si adegua alla mia volontà. Ho pure un'attenuante: abitare dalla parte opposta della città mette a dura prova la motivazione di qualunque volontario ben intenzionato. Comunque, tutte le volte che rimetto piede nella cucina della mensa popolare, magari dopo qualche settimana di prolungata assenza, so già che sarà sempre come la prima volta. "Good to see you again, man!". C mi viene incontro e ci salutiamo, pugno contro pugno. Poi cerco Debbie con lo sguardo, ma ancora non la vedo. Nessuno la batte in pazienza. Tutte le volte mi chiede come sta il mio piccoletto, poi mi indica il lavandino e i guanti in lattice. Da qualche tempo sembra che la mia memoria batta davvero i colpi, a partire dalle regole igieniche basilari. La prima cosa che infatti devi fare, quando entri in una cucina professionale, è quella di lavare le tue mani, a maggior ragione se hai fatto un'ora di viaggio in quel serbatoio inesauribile di microbi e virus vari che è la metropolitana. E, ben prima di attraversare la porta della cucina, devi bloccare i tuoi capelli, soprattutto se hai la fortuna di averli ancora. Almeno queste sono le regole che devi osservare quando arrivi alla "Community Kitchen" di West Harlem. In caso contrario, non è detto che la pazienza di Debbie sia poi così scontata.
Oggi vado subito dritto al lavandino. Saluto Matt, il tuttofare della cucina, e dopo aver ascoltato le istruzioni di una delle cuoche, afferro il grande coltello che mi ha lasciato e mi metto a tagliare il cavolo riccio. Ho davanti uno scatolone ancora pieno. Quando Debbie arriva, e vede che maneggio il coltello con una certa decisione, mi apostrofa con il suo rituale "take your time", credo a scongiurare che nulla di rosso vada a mischiarsi con il verde del cavolo. Avere a che fare con i volontari è stressante. Certo, siamo d'aiuto, tutti ce lo ripetono e tutti ci ringraziano in continuazione. Ma spesso, per eccesso di zelo e per non perdere tempo, facciamo cazzate immani anche quando ci affidano i compiti più banali. Cerco allora di non lasciare sangue, anche se sono sicuro che tutto scivolerebbe comunque via sotto l'acqua del lavandino dove sto accumulando una montagna di cavolo. Non credo, però, che un mio dito mozzato passerebbe inosservato. C mi dice di mettere il cavolo riccio in due grandi pentoloni e di condire a mio piacimento, aggiungendo qualcosa che dia sapore, tipo burro e sale. Lo fisso, per vedere se mi sta prendendo in giro. Non scherza. Punto il frigo e recupero due enormi lingotti di burro. Credo che C abbia recuperato della fiducia nelle mie competenze basilari in cucina, o forse oggi l'organico è proprio ridotto. La prima volta che ero venuto qui ad aiutare, quasi non avevo avuto il tempo di capire nemmeno dove fossi. C si era semplicemente presentato e mi aveva detto che dovevamo preparare il purè per qualche centinaio di persone. Poi, puntando l'impastatrice già in funzione, mi aveva detto che dovevo aggiungere alcune scatole di patate disidratate, alcuni panetti di burro e del latte. Punto e via. C è il capocuoco. È un ragazzo afroamericano con un nome nigeriano, Akanni, e il cognome che suona italiano. Ma tutti lo chiamano C e basta. Quel primissimo giorno avevo eseguito l'ordine alla svelta, mentre l'impastatrice continuava a girare e io cercavo con lo sguardo qualcuno che mi rassicurasse. In quei minuti avevo anche rivisto davanti ai miei occhi la presa per i fondelli che per anni mi aveva perseguitato dopo aver tentato di preparare una carbonara per una decina di amici. Che colpa avevo avuto, io, se dopo aver sbattuto un numero di uova pari al numero di affamati e avendo unito l'albume solo di alcune, mi ero poi ritrovato a disposizione, cotta e scolata, una quantità di pasta pari a tre etti, manco fossimo stati un gruppo di bambine inappetenti? Ci credo che poi era venuta fuori una specie di frittata di pasta. Niente. Nonostante qualche anno dopo io abbia superato in scioltezza anche l'ordalia dell'assaggio da parte di romani doc, la macchia di quella frittata è mai andata via dal mio curriculum carbonaro.
Mentre l'impastatrice continuava a mescolare il purè come fosse una betoniera, avevo anche trovato il tempo di chiedermi se in Italia sarebbe mai stata possibile un'esperienza di volontariato come quella. Chi mai ti avrebbe fatto entrare in una cucina professionale senza prima stressarti su tutti i pericoli immaginabili, dai coltelli ai pavimenti scivolosi, o facendoti quantomeno firmare uno scarico di responsabilità? Qui, niente del genere, solo la richiesta di non indossare infradito o sandali durante l'estate. In quella mia prima esperienza alla Food Bank, comunque, e anche con il mio quasi impalpabile contributo, il purè non era venuto nemmeno così male.
Come ogni giorno, gli anziani di Harlem, soprattutto donne, arrivano alla "community kitchen" già a metà mattinata. Questo è per loro anche un luogo di ritrovo, dove possono socializzare e seguire le attività programmate quotidianamente per intrattenerli. Oggi alcune signore sono riunite davanti ad un televisore che, appositamente per loro, trasmette una vecchia serie televisiva afroamericana degli anni '70. Qualche mese fa, invece, mi è capitato di vederle gareggiare con determinazione ad un gioco di memoria. "9 e 14, Karl Marx. Match!", aveva urlato l'impiegata che quella mattina era stata chiamata a fare pure l'animatrice per il gruppo degli anziani raccolto di fronte a lei. La signora che era stata pronta a ricordarsi sotto quali numeri della lavagna a fogli mobili fosse attaccata l'immagine di Marx (Marx!), si era guadagnata un'altra possibilità di vincere la gara. Aveva scelto il primo numero e trovato la faccia di Barry White. Ma quando aveva poi chiamato il 33, non aveva avuto altrettanta fortuna: si trattava di Michelle Obama, niente da fare. Akanni, pure lui, si era preso qualche minuto di pausa e aveva provato ad azzeccare una coppia di foto identiche. Flop. Io, intanto, avevo continuato ad arrotolare tovaglioli di carta attorno a forchette di plastica. Quando ti tocca questo compito, in genere, non serve contare le forchette, perché sai già che nessun numero sarà mai esagerato. 
Non sempre gli anziani possono spassarsela, qui alla mensa. Alcune mattine, prima di servire il pranzo, c'è infatti la lezione d'educazione alimentare. Ci sono più calorie in un panino con il tacchino o in un'insalata con il pollo alla griglia? In genere le signore si scambiano sguardi perplessi. Dopo il disorientamento iniziale, imparano che il tranello sta tutto nel condimento, come sempre. Un altro giorno, se saranno più fortunate, al posto della lezione sulle etichette dei prodotti e sulle proprietà nutritive potrebbe esserci la lezione di Tai Chi. Mai un attimo di sosta.
A fine pranzo, alcuni anziani si fermano comunque qui per riposarsi, soprattutto nelle gelide giornate come quelle dello scorso inverno, quando spesso la neve bloccava anche molti volontari e bisognava organizzarsi contemporaneamente per spalare la neve e tagliare le melanzane. Al piano interrato dello stesso palazzo che ospita la community kitchen di West Harlem, c'è anche una dispensa organizzata come fosse un piccolo supermercato a due corsie. Qui le persone più bisognose possono trovare gratuitamente verdura, carne, pesce e altro cibo che viene acquistato con il denaro raccolto attraverso le donazioni. C'è anche chi dona direttamente cibo a lunga conservazione. Per questo, oltre alle suddette melanzane o ai cerali per la colazione, può capitare anche di trovare, tra i più disparati pacchi di pasta, le fettuccine nere, quelle fatte con il liquido delle seppie. La mensa e la dispensa sono gestite dalla Food Bank di New York, una delle più importanti organizzazioni assistenziali nonprofit della città. Si calcola che in città siano 1 milione e quattrocentomila le persone che per nutrirsi fanno affidamento ad organizzazioni come questa e che in totale 2 milioni e seicentomila persone vivono una situazione in cui è economicamente difficile procurare il cibo per se e per la propria famiglia. Dal lunedì al venerdì la mensa di West Harlem serve 500 pasti caldi al giorno, per un totale di 10000 pasti al mese. Altri 40000 pasti, ogni mese, vengono invece distribuiti dalla dispensa sotto forma di spesa gratuita. Ad ogni persona, in base alle dimensioni della sua famiglia, viene assegnata una quantità predefinita di punti. Ad ogni prodotto corrisponde un certo numero di punti. In questo modo, le persone possono scegliere cosa prelevare dagli scaffali, in base ai loro bisogni e preferenze. Il "foodscape" reale di Harlem è anche questo, non quello delle guide per turisti che spesso nemmeno scendono dai loro autobus. Parola diventata di tendenza e per questo già sputtanata, "foodscape"; ma che gli studiosi usano ancora per riassumere sotto un'unica etichetta tutte quelle dinamiche economiche e culturali che modellano il modo in cui produciamo, troviamo e mangiamo il cibo. Harlem era un quartiere povero e la gentrificazione sembra aver accentuato la povertà. La parte est del quartiere, quella chiamata El Barrio perché la maggior parte dei suoi abitanti sono portoricani e latinoamericani in genere, è anche quella più povera. La parte ovest, invece, è proprio quella dove, piano piano, si sta facendo strada la gentrificazione del cavolo riccio. E che succede ai poveri di una zona in progressiva trasformazione urbanistica? Quando non sono costretti ad abbandonare il loro quartiere, perché hanno la fortuna sfacciata di vivere nelle case popolari (gli "housing projects", tappeto sotto il quale la città spesso pretende di nascondere il disagio e la criminalità) e non devono preoccuparsi degli affitti che aumentano, devono semplicemente sperare che vicino casa loro non chiuda una piccola drogheria e non apra uno di quei negozi specializzati in alimentari biologici che piacciono tanto a noi buongustai, perché altrimenti con i loro buoni pasto (cioè il piccolo sussidio federale quotidiano) comprerebbero poco e niente. È possibile che questa mia visione sia un po' estrema. Ma qui ad Harlem è sufficiente fare un giro sopra la 125th Street e oltre Lexington Avenue per capire che, in un quartiere povero, anche solo aprire un nuovo grande supermercato o un nuovo negozio di alimentari per una clientela benestante può creare problemi nel tempo. Perché se poi c'è gente che non ha una casa popolare ed è costretta a pagare sempre di più per il proprio affitto, a fronte di sussidi, pensioni o stipendi che nella migliore delle ipotesi non aumentano, alla lunga queste persone, che erano a pieno titolo classe media (perché svolgevano tutti quei lavori ben retribuiti che ora i settori manifatturieri automatizzati e delocalizzati richiedono solo in minima parte), faticheranno anche solo ad entrarci in quel supermercato, scivoleranno lungo la scala sociale e spingeranno ancora più in basso chi già stava sotto di loro. Quando anche le case popolari non bastano più, per gli homeless (più di 50mila in tutta New York) ci sono i rifugi o dormitori notturni e, per qualche migliaio, c'è solo la strada o la metropolitana. Per tutti coloro che si trovano nei gradini più bassi e sempre più affollati di questa scala sociale — e nell'attesa che la classe dirigente a livello globale si inventi come invertire questa tendenza che è la stessa in tutti i paesi occidentali — organizzazioni come la Food Bank di New York sono delle reali scialuppe di salvataggio, che aiutano a portare in tavola il pranzo e la cena e aiutano a non scivolare dalla scala.
Se passate da New York e volete regalare il vostro tempo come volontari alla Food Bank è sufficiente creare un veloce account sul loro sito (http://www.foodbanknyc.org) e poi registrarsi per i singoli eventi in calendario. Oggi, per esempio, in dispensa c'era un gruppo di ragazzi parigini. Dal mattino all'ora di cena, dal magazzino centrale nel Bronx alle dispense sparse per tutta la città, ogni settimana è possibile trovare decine di opportunità per poter prestare il proprio aiuto. Anche il più semplice dei lavori in dispensa è fondamentale e gratificante. Spesso, per semplificare la vita delle signore più anziane, basta aiutarle a riempire i loro carrelli. E quando una di loro, un po' più lenta delle altre e dalla corporatura imponente, ti regala un materno "thank you, sweetie", poi non smetti di sorridere per il resto della giornata.

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