17 aprile 2014

Brownie Eyes [ NYC #31 ]

Essere un veterano di guerra può avere ben poco di epico. Quand'anche avessi la fortuna di tornare vivo, o solo con qualche arto in meno, potresti però ritrovarti senza casa e lavoro. Come il veterano dell'Afghanistan che chiede l'elemosina sulla Quinta Avenue a Sunset Park. Davanti alla Chiesa di "Nostra Signora Dell'Aiuto Perpetuo" c'è un banchetto con tre madamine che vendono biglietti per un concerto di beneficenza. Non si vedono benefattori all'orizzonte ma si sente forte e chiara la musica che arriva dallo stereo portatile di un vecchio appoggiato al muro a due metri dal banchetto. Immobile come una statua, la barba resa ancora più bianca dalla sua pelle scura. La musica funky che esce dal suo piccolo stereo è quasi un'eresia, da queste parti: per venti isolati buoni questa è una roccaforte sudamericana, dove le macchine ferme al semaforo pompano salsa a tutto volume. A volte, poi, basta dare un'occhiata ad alcune auto e a chi ci sta dentro per capire perché la polizia abbia messo le telecamere di sicurezza sui lampioni di qualche incrocio, che sono efficaci quanto la citronella con le zanzare.
Qui a Brooklyn, l'angolo tra la Quinta Avenue e la 57esima Strada ha ben poco del glamour che contraddistingue invece il suo omonimo di Manhattan.
Da quelle parti si costruiscono grattacieli che ospiteranno condomini per ricchi russi e brasiliani, che verranno a trascorrere in città solo poche settimane all'anno e non pagheranno, per questo, le tasse sul reddito che qualunque residente a New York deve pagare. Da quelle parti ci si scandalizza per l'abbattimento di un piccolo palazzo di un centinaio d'anni, che nel crollo si porterà via anche una libreria e che lascerà spazio proprio ad uno di quei mega-condomini che faranno letteralmente ombra sull'estremità meridionale di Central Park. Da quelle parti lì, in uno dei tanti auto-proclamati "Centri dell'Universo" di Manhattan, si ha la memoria corta, almeno a leggere i commenti di alcune autorevoli voci cittadine. A Midtown, infatti, qualcuno non capisce perché la soprintendenza architettonica cittadina, con una scelta che può anche essere opinabile, ovvio, non abbia dichiarato storico un palazzo come tanti, che non assume particolare pregio solo perché al suo ingresso c'è un ampio arco, le volte interne sono stuccate come si faceva nelle case medio-borghesi italiane negli anni '70 e dentro a questo palazzo ci potevi trovare, sino a settimana scorsa, una libreria con vecchi scaffali in legno scuro. Da quelle parti si dimentica, o forse nemmeno si sa, che quando Rizzoli, una delle più grandi case editrici italiane (il cui nome per noi significa soprattutto Corriere della Sera e lotte di potere), arrivò a Midtown, lo fece con lo stesso spirito di chi, russo, arabo o brasiliano, adesso vuole con i suoi miliardi comprarsi pezzi di Manhattan cacciando tutti gli altri, e non certo arrivò con lo spirito della piccola libreria indipendente in via d'estinzione (insomma, chi la fa... prima o poi se la deve aspettare). Da quelle parti sparirà per sempre una New York leggendaria, quella dei tempi andati, che con buona probabilità è solo esistita nelle fantasie dei liberal benestanti, che mai si sono fatti problema a cacciare dai loro quartieri i poveracci o gli artisti spiantati, perché così va il mondo anche se noi moralisti preferiamo sentirci innocenti e niente affatto responsabili. Da queste parti, invece, nella Piccola Sudamerica di Brooklyn, ci sono panetterie colombiane, untissime tavole calde messicane, pasticcerie con torte appena verniciate, negozi dove trovi la maglia dell'Argentina mundial o Nike originali a prezzi stracciati. Da queste parti, ci possiamo scommettere, non avrà molto seguito la giornalista radiofonica nota per le sue battute razziste contro gli immigrati latinoamericani e che ora parlerà pure dagli schermi della ABC, pare per controbilanciare il cosiddetto pregiudizio di sinistra dei media (anche questa fesseria è ormai globalizzata). Da queste parti trovi ancora le insegne delle vecchie botteghe di cui alcuni fotografi, con i loro progetti di testimonianza temporale, lamentano la scomparsa a New York. Certo, basta stare qui un anno per vedere quartieri trasformarsi ("hey! Ma tu te lo ricordavi quel bar?") e leggendo le cronache si intuisce quanti cambiamenti ci siano stati nel decennio abbondante dell'amministrazione Bloomberg. Ma quando alla nostalgia newyorchese del tempo andato, caratteristica che impari presto ad amare, ci unisci però la pigrizia del fotografo che non alza il culo per muoversi da Manhattan manco a calci, allora ottieni un'immagine che, seppur comparando gli stessi spazi in tempi diversi, ti dice davvero poco della città e della sua storia. Da queste parti, nella Quinta Avenue di Sunset Park, non solo non ci trovi Tiffany ma puoi trovare la Brooklyn che non è ancora diventata il posto dove tutti vogliono venire. Da queste parti non si trovano ancora i liberal che, come racconta il Times, vivevano a Park Avenue, poi hanno comprato casa ai figli a Williamsburg e adesso, che sono in pensione e vogliono risparmiare qualche dollaro, si comprano casa a Williamsburg pure loro, rendendola progressivamente inarrivabile per quei giovani alternativi che l'avevano scoperta per primi e che ora imparano che c'è sempre qualcuno più hipster di te. Questa piccola Sudamerica che prova a resistere allo sconfinamento di una sempre più estesa Chinatown, forse non diventerà mai la Brooklyn dove tutti vogliono essere, anche se il futuro arrivo del centro d'allenamento dei Nets a Sunset Park è un segnale che la pressione degli affitti sta scendendo verso sud e bisogna stare con gli occhi aperti. Noi, ovviamente, speriamo che non arrivi nella nostra Bay Ridge, forse il segreto meglio custodito di tutta la città, anche se tra i custodi ci sono italiani e irlandesi un po' troppo conservatori per i nostri gusti. Allo stesso tempo, sappiamo che l'apertura nel quartiere di una filiale del Tribeca Pediatrics, quello in cui portiamo pure il nostro piccoletto (ma nella più trendy Park Slope, poiché l'anno scorso, quando siamo arrivati, non esisteva un centro più vicino a noi), ci dice definitivamente che sempre più famiglie stanno scegliendo Bay Ridge, perché non sono affatto stupide. Dove puoi trovare, infatti, un posto come Owl's Head Park, dove la domenica pomeriggio i bambini messicani festeggiano il loro compleanno cercando di scassare con una mazza la pinãta piena di caramelle che ciondola dall'albero o ragazze musulmane giocano a freesbee coperte integralmente dai loro hijab neri, da cui si intravedono a malapena solo gli occhi?
Questa diversità newyorchese o, più in generale, il tentativo di melting pot americano hanno ben poco di facile o romantico. Alimentano speranze, quando vedi i bambini giocare insieme ai giardini. Ma sai pure che danno vita anche ad intolleranze malcelate, per non parlare delle violente battaglie politiche sull'immigrazione, quelle su cui soprattutto i Repubblicani si giocheranno le presidenziali dei decenni a venire, quando il lento cambiamento demografico e una nuova morale assai più progressista potrebbe metterli ai margini. Però la diversità c'è, esiste, è un dato di fatto, la tocchi con mano, e in questa città la tocchi soprattutto lontano da Manhattan. Nelle giornate in cui si festeggia "Passover", "Pesach", cioè quella che in Italia viene chiamata un po' impropriamente la pasqua ebraica, qui troverai anche, nelle cronache dal Paese sterminato, il pazzo animato da odio razziale che uccide dei cristiani perché li ha scambiati per ebrei; o l'eco della polemica politica sulla libertà religiosa usata come un pretesto per tentare di bloccare l'Obamacare; o il politico che accusa il Presidente Obama di usare lui la razza come una spada; o il comico che scivola su una battuta a sfondo razziale senza nemmeno accorgersene. Ma troverai, al contempo, decine di negozi che ti augureranno buone feste, esponendo insieme in vetrina le tradizionali uova, i coniglietti di Pasqua e pure tutte le specialità kosher; o troverai anche solo tanti indiani che andranno nei loro templi nel Queens per pregare Shiva; oppure leggerai animati dibattiti sugli inconsci pregiudizi razziali usati per condannare il razzismo e sulla necessità che le diverse comunità etniche, per esempio quelle asiatiche o afroamericane, facciano la loro parte per non dare adito ai pregiudizi con cui vengono rappresentate; o ancora ondate di sdegno per il politico a caccia di consensi con battute fatte solo per far parlare di se o campagne per la cancellazione dei nomi delle squadre sportive che offendono la storia dei nativi americani. Non farai nemmeno così tanta fatica a trovare qualche analisi interessante sulle prospettive dell'ateismo. Su quanto poi i media, anche su questioni fondamentali come quelle razziali o religiose, riescano ad influenzare l'opinione pubblica di questo immenso Paese, che in appena cento anni ha quadruplicato la sua popolazione, si dovrebbe aprire una parentesi ancora più fiume di questo post: perché nonostante quello che si possa credere, molti numeri suggeriscono che tutti i media, quelli nuovi quanto i più tradizionali, parlano ad una platea ormai atomizzata in tantissimi piccoli pubblici, ognuno con le proprie irriducibili caratteristiche, la qual cosa fa impazzire pubblicitari e consulenti elettorali. Insomma, gli anni '50 sono finiti da un pezzo.
Ovviamente, e tanto per rimanere al "Passover" come uno dei tantissimi esempi delle diversità presenti negli States, quaggiù non c'è stata la rimozione della cultura ebraica che è avvenuta in tanti Paesi europei, dove sembra che solo la tragedia dell'Olocausto abbia consentito di non cancellare completamente dalla Storia continentale e da quella mediorientale gli ebrei. Ma quando sbircio su Facebook che una tizia, commentando il post pubblicato da una sua amica per augurare un felice "Pesach", scrive, con tono che lei credeva di sicuro divertente: "vuoi conquistare anche la lobby ebraica?"; o quando apro i giornali italiani e leggo dell'uso, per fini politici alquanto banali e rozzi, della drammatica foto dell'ingresso del campo di concentramento di Auschwitz; o quando leggo, nella propaganda elettorale per le europee, tutti questi richiami, dall'estrema destra o dall'estrema sinistra, alle nazioni e ai popoli, che anche se usati per condannare le politiche economiche d'austerità, finiscono poi per giustificare, nella testa dell'elettore sempre più impoverito e confuso, qualunque chiusura verso l'idea di integrazione o anche solo quella di tolleranza, penso che la strada da fare sia ancora tanta, tanta, tanta. E se qui negli Stati Uniti quella strada, oltre che lunga, sembra pure parecchio accidentata, l'impressione è che in Europa, troppo spesso, qualcuno non abbia mai nemmeno sentito parlare della bussola, figurati di un percorso per arrivare da qualche parte. Ma si sa, noi europei siamo lenti, prima o poi ci arriviamo pure noi.
La cucina del "Madiba", dai sapori intensi e curata in ogni dettaglio, vale il viaggio per un pranzo nel fine settimana. Entrando in questo ristorante sudafricano, aperto dal 1999 qui a Brooklyn nel quartiere di Fort Greene, zona storicamente afroamericana prima di accogliere legioni di famiglie bianche con i loro passeggini firmati, puoi leggere alle pareti la lunga storia di Nelson Mandela, dalla lotta alla prigionia e poi fino alla Presidenza. Anche la sua storia e quella del Sudafrica hanno ben poco di facile o idealistico. Ma parlano di tempo, forza, pazienza, intelligenza, e pure compromesso, che con gli ideali ha quasi niente da spartire. Parlano di passi piccoli, lentissimi, claudicanti eppure inesorabili. Quando siamo a casa, ripenso al nostro piccoletto che fissava la grande sagoma dell'Africa alle pareti del "Madiba", colorata come fosse una grande bandiera sudafricana. Ci stiamo preparando al "Passover" anche noi. Il fatto d'essere ateo non mi impedisce di apprezzare il "gefilte fish", le cui scorte cittadine pare siano scarse quest'anno, e il profumo di carne che arriva dal forno, un "brisket" che immagino sia fatto davvero come Dio comanda. Si sente il figlio dei nostri vicini che corre al piano di sotto, con un tipico ululato di gioia. Ha qualche mese in più del nostro. Il suo papà arriva dal Costarica e la sua mamma dalla Polonia. I due piccoli selvaggi, qualche volta, provano a giocare insieme, ma sono ancora nella fase in cui ognuno preferisce farsi gli affari propri e seguire le proprie macchinine. La ventola della nostra cucina copre per qualche istante "Brownie Eyes" e la tromba di Clifford Brown, che è riuscito a scalzare dallo stereo l'onnipresente "Say Ladeo" di Bobby McFerrin, colonna sonora delle giornate del nostro piccoletto. Difficile tenerlo fermo nel tardo pomeriggio, passa con disinvoltura dalla mini-pallacanestro alla mini-metropolitana. Corre verso la libreria, dove afferra alcuni dei suoi libri preferiti. Altri li afferra a caso, ma non sa ancora che c'è una logica pure in tutto quello: passa dall'infinitamente spaziale di "Goodnight Galaxy", nuova entrata tra le sue fissazioni, all'infinitamente locale di "Goodnight Brooklyn", che apre, tenendo stretta la sua mini-palla da basket, alla pagina in cui si celebrano i Nets. C'è anche un altro libro, che spesso leggiamo insieme. Dove tutti i bambini del Mondo si tengono per mano. C'è il bambino con gli occhi castani, il bambino con i capelli neri e la bambina sulla sedia a rotelle. C'è la bambina che vive nel sud della Francia, il bambino che vive in Perù e quello che vive in Marocco. C'è il bambino che ha un solo papà e quello che di papà ne ha due. "We All Sing With The Same Voice", dice il titolo, "with the same voice and the same song. And we sing in armony". Magari credere a questa storia costa un po' fatica, ma leggerla insieme al piccoletto non costa niente.

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