01 gennaio 2014

Mamma li Americani



Da fine gennaio Fiat diventerà proprietaria di Chrysler al 100%. Domattina dall'Italia ci spiegheranno il perché e il per come. Ci saranno commenti pronti a spiegarci quel che noi ingenui non abbiamo capito, le mosse segrete, i significati invisibili, le minacce future, quelle minacce che da anni continuano a rimanere noiosamente future. Tranquilli, amici: qualcosa sull'IPO Chrysler, sulle azioni detenute ancora dal fondo pensionistico VEBA e sul desiderio di Fiat di acquisire il pieno controllo della casa automobilistica di Detroit, lo avevamo intuito, e non per meriti particolari: era sufficiente leggere qua e là, magari fuori dalla solita rassicurante cerchia dei presunti esperti del settore automotive (soprattutto di quelli con ambizioni politiche). Che l'IPO fosse improbabile, per esempio, era già cosa chiara quando a settembre alcuni commentatori americani spiegavano che il prospetto, sottoscritto solo da una banca d'affari (fatto anomalo, perché nelle IPO tutti vogliono provare a guadagnare qualcosa), era un chiaro invito ai potenziali investitori a tenersi lontani, pena lo svuotamento di Chrysler da parte di Fiat. La minaccia sembrava un azzardo, se non un conflitto d'interessi, visto che Torino era già a capo di Detroit. Ma con i soldi qui negli States non scherza nessuno, perché non si trattava di una partita di poker ma dei trattamenti pensionistici di milioni di lavoratori del fondo VEBA, il quale forse non voleva proprio correre il rischio di perdere. E si, perché a questa latitudine, diversamente da quel che si pensa in Italia, tutti i commentatori economici  ritengono che Fiat abbia sicuramente bisogno degli utili di Chrysler, in quanto il mercato americano cresce mentre quello europeo, e italiano in particolare, è in caduta; ma ritengono altresì che Chrysler, senza la tecnologia apportata da Fiat, sarebbe già scomparsa da tempo. Quest'ultimo aspetto è quello che ha sempre fatto urlare "al lupo" gli osservatori italiani, terrorizzati che Fiat potesse diventare americana.
Diventare americana? Ma che vuol dire? L'impressione è che chi ripete questo mantra, a prescindere dall'inesattezza della previsione, continui a non capire in quale Mondo viviamo. Piaccia o no, perché a dire il vero può anche non piacere, stiamo correndo dritti dritti verso un Mondo in cui i confini nazionali avranno sempre meno ruolo e, secondo alcuni, potrebbero sparire in qualche decennio. No, non sono in ballo le previsioni sulle tendenze future del 2014 che ci hanno annoiato negli ultimi giorni dell'anno appena finito, durante i quali molti  quotidiani italiani ci hanno spiegato perché Facebook farà fatica a trattenere i giovani o che la nostra privacy sarebbe stata a rischio se non fosse stato per la Merkel (barzelletta del 2013). Sono in ballo, invece, cambiamenti epocali già in atto, il cui impatto globale sarà sempre più evidente in futuro. Vivremo in un Mondo in cui le grandi aree metropolitane produrranno più ricchezza di interi Stati, e non sarebbe diverso se non adottassimo il concetto di prodotto interno lordo. Già adesso è così, e non lo dice il sottoscritto: lo dicono i numeri, quelli ufficiali, come quelli pubblicati dal Census Bureau americano o ripresi dai grandi "think tank" internazionali, gli stessi che guardiamo con sospetto perché promuovono accordi commerciali transnazionali che, se non riequilibrati, potrebbero mettere a rischio molti dei nostri diritti di lavoratori e cittadini, almeno per come li abbiamo sinora conosciuti. Secondo questi dati, se l'area metropolitana di New York fosse uno Stato, sarebbe la tredicesima economia al Mondo, appena sotto la Spagna e superiore all'Australia. L'area di Los Angeles sarebbe più ricca della Turchia, quella di Chicago della Svizzera, quella di Boston della Grecia, quella di Miami della Finlandia. Secondo la rivista Foreign Policy, in futuro saranno solo tre le aree metropolitane europee che, insieme ad una dozzina di americane, riusciranno a competere con le sempre più numerose, più grandi e più forti aree metropolitane cinesi e asiatiche in generale: Londra, Parigi, la Ruhr. Milano e Roma, per nostra informazione, sono fuori da qualunque scenario. Secondo un rapporto pubblicato dall'istituto Brookings e JP Morgan Chase, relativo ai tratti che caratterizzano una metropoli che abbia influenza globale, Milano ha dimostrato d'essere incapace di mantenere il suo status di metropoli globale a causa del declino del suo settore moda. Si, per loro Milano, cioè la capitale economica italiana, l'unica in grado di emergere un minimo a livello internazionale, è in declino, nonostante le riviste della borghesia internazionale, come la bellissima "Monocle" si sforzino di vedere positivo e di accreditare l'Italia come un Paese dove il "soft power" del cibo e dello stile potrebbero ancora aiutarci nella competizione globale. E qualcuno domani, di fronte a questo panorama che da anni in tanti ripetono con meticolosa monotonia, starà a domandarsi che succederà ora con la Fiat? Se un'azienda multinazionale, l'unica vera privata italiana, alle prese con lo sforzo di sopravvivere e di provare ad allargarsi verso l'Asia, si quoterà solo a Wall Street? Se i torinesi sposteranno la sede a Detroit? Ci sarà un giorno in cui smetteremo di guardare il dito e ci concentreremo sulla Luna, si spera. Quale miglior augurio per il 2014 italiano.
Intanto, la Fiat a fine gennaio acquisirà il controllo totale di Chrysler, comprando il 41,46% delle azioni ancora in mano a VEBA. Il valore complessivo dell'operazione sarà di 4,35 miliardi di dollari. A settembre 2013, quando VEBA intendeva incassare molto di più di quanto offerto da Fiat prima di chiamare in causa i giudici americani per dirimere la controversia, e molti scrivevano che Marchionne era il solito giocatore di poker, Fiat aveva diritto di acquistare la quota residua a 4,25 miliardi. Bingo.

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