27 gennaio 2013

DIARIO MINIMO DA MIAMI - 17 - Fuga dal Paradiso

Di colpo, il suo sorriso sparisce. La smorfia rimane stampata sulla sua faccia per qualche secondo che a me sembra interminabile. Esplicativa, posso dire così? Se un romano o un napoletano, ma anche un torinese, dicesse ad un proprio concittadino: "voglio trasferirmi a Milano", l'altro lo guarderebbe con la stessa smorfia che Lorenzo ha fatto a me. Siamo quasi al bordo della piscina di casa sua, la serata è fresca e io ho appena pronunciato le parole maledette: "ci stiamo trasferendo a New York".
Ci unisce la stessa regione di provenienza (Lorenzo è di Vercelli). Ci unisce un libro che non so quanti avranno letto in Italia ("Il quarto livello", di Carlo Palermo). Ci unisce lo stesso percorso di studi (giurisprudenza; ma io ho cambiato direzione, mentre lui diventava avvocato e andava a lavorare a Bruxelles, direttamente per l'Unione Europea, prima di venire qui negli USA e occuparsi di riciclaggio di denaro sporco). Ci unisce la passione per il vino e per la carne alla brace (che sua moglie, brasiliana, sta preparando per noi ospiti della festa). Ma quella smorfia dice che Lorenzo proprio non può capire chi non voglia fermarsi a vivere a Miami. E, di più, non può concepire chi voglia andare a NYC. "Guarda che clima, qui, ed è gennaio!".

Al mattino, le parole di Lorenzo hanno ancora più senso. Dalle enormi vetrate della casa di Adri, che ci ospita in questi giorni a Palmetto Estates, il piccolo lago dalle acque limpide è il nostro paesaggio a colazione. Si, è balneabile. Perché non provare a vivere in un posto così incantevole? Forse perché servirebbe la macchina anche solo per andare a comprare il latte. O forse perché ho una scarsa resistenza all'umidità (resistenza sicuramente inferiore a quella di un vercellese cresciuto nella Pianura Padana), e qui l'estate bollente e afosa dura cinque mesi. O forse, ancora, perché la predominanza di latino-americani, quaggiù, rende pressoché impossibile l'arrivo della metà dei gruppi indie in tour per il Nord America (già un miracolo se arrivano a Fort Lauderdale, così come risulta un mezzo mistero la prossima data degli XX a Miami Beach). Miami è una perfetta incompiuta. Potrebbe essere molto di più di quel che per ora riesce ad essere: una grande e ricca metropoli del Sudamerica ai margini degli States.
La luna adesso è piena. In tv scorrono le immagini silenziose del Pro Bowl, una sorta di scapoli contro ammogliati del football americano, ad una settimana dal vero evento che fermerà il Paese, il Superbowl. Dan è arrivato stasera con sua madre, dopo una crociera nei Caraibi, e domani voleranno a casa, a Los Angeles. Avrà poco più di vent'anni, Dan. Suona il basso con un gruppo di amici ad Hollywood, ma ora suona la chitarra per Jack, il figlio di Adri, rimasto orfano di papà troppo presto. Jack tiene stretto il suo nuovo iPad, anche se ieri un suo compagno di basket gli ha spaccato lo schermo con un calcio. Dan e Jack provano a cantare insieme.
Cause you had a bad day
You're taking one down
You sing a sad song just to turn it around
You say you don't know
You tell me don't lie
You work at a smile and you go for a ride
You had a bad day
You've seen what you like
And how does it feel for one more time
You had a bad day
You had a bad day
Porto in giardino il mio piccolo Julian, lo tengo in braccio e gli faccio vedere i riflessi della luna sull'acqua. Magari la prossima volta sarà a Bay Ridge, davanti al Ponte di Verrazzano.


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