05 dicembre 2012

DIARIO MINIMO DA SAN FRANCISCO - 3 - Casa mia, casa mia

Helen e Adrian hanno lasciato l'Inghilterra per la Silicon Valley. Vivevano non molto distante da Londra, dove Rachel era andata a trovarli un paio d'anni fa. Adesso vivono a Los Gatos, vicino a San Josè, perché Adrian ha trovato lavoro in Google. È un ingegnere, segue uno dei tanti filoni sui quali a Mountain View stanno investendo, cioè quello della compressione dei video per portare la tv su YouTube. A dire il vero, lui vorrebbe cambiare mestiere e non fare più l'ingegnere. Ancora non sa cosa, ma intanto ci pensa. Helen, invece, è una musicista.
Helen e Rachel hanno studiato musica nella stessa università in Texas. Vado in crisi quando mi chiede quali siano le canzoni tradizionali italiane per il Natale. E vado in crisi pure quando vedo i prezzi delle case: Adrian mi mostra un giornale locale, e solo a buttare l'occhio si vedono cifre come 600mila dollari, 800mila, un milione, per case che rimangono assolutamente normali anche se hanno il giardino. I due amici inglesi, quaggiù, possono solo permettersi un affitto.
La California potrebbe scoppiare da un momento all'altro. Non per il Grande Terremoto, che prima o poi arriverà, ma perché è uno Stato con un debito pubblico enorme. Eppure, in tutta la Bay Area il mercato immobiliare ha prezzi stratosferici. San Francisco, che è piccola e che qui negli USA ha una densità seconda solo a New York City, è inavvicinabile. Ma neanche la East Bay scherza. Danielle, agente immobiliare, ci porta a vedere alcuni quartieri residenziali a Castro Valley e San Leandro, a 26 miglia da San Francisco. Se non si vuole passare un'ora sul Bay Bridge e poi sulla Five-Eighty per tornare a casa, si può sempre passare un'ora sul Bart, il treno che abbraccia gran parte della Baia. Le colline hanno impedito all'area metropolitana di espandersi ancora più ad est, ma questo non aiuta a calmierare i prezzi di un mercato che anche qui definiscono pazzo.
Risalendo la East Bay, Oakland proprio non riesce ad essere attraente, nemmeno dopo che il New York Times l'ha piazzata al 5° posto tra i 45 luoghi da visitare nel 2012, alle spalle di Londra e prima di Tokyo. Arrivando a Oakland da Berkeley, i senza tetto su San Pablo Avenue, poco distante dalla stazione Greyhound, ti avvertono che stai per arrivare nella città che ha uno dei tassi di criminalità più elevati di tutto lo Stato. Gli afro-americani hanno dovuto lasciare progressivamente San Francisco, dove la diversità è ormai rappresentata solo dalle folte comunità asiatiche, per rifugiarsi nei quartieri poveri di questa città, dove tutto sembra senza anima. Anche la locale Chinatown è assolutamente anonima, come potrebbe esserlo quella di Via Sarpi a Milano o di Piazza Vittorio a Roma (per una volta lascio fuori la mia Torino, perché i cinesi di Porta Palazzo, pur in evidente aumento, non riescono ancora a scalfire la kasbah maghrebina). A capo dell'ufficio per la promozione di Oakland deve esserci un mago delle pubbliche relazioni, con un budget magari risicato ma con le idee chiare su quale sia il modo più efficace per far parlare della città. Lezione imparata: diffida del New York Times.
Berkeley è la casa di Summer, scrittrice poliedrica, che si muove dai romanzi gialli ai libri per bambini. Prendiamo appuntamento e la incontriamo allo Zut, ristorante non proprio economico sulla Quarta Strada, zona di piccoli negozi alla moda e gallerie d'arte, dove è sufficiente girare l'angolo dopo l'Apple Store per trovare piccoli capannelli di latino-americani che stazionano vicino al passaggio a livello e sembra quasi stiano aspettando il caporale di turno per qualche ora di lavoro. In questo periodo Summer sta lavorando ad un libro per i bambini di Richmond, città a nord di Berkeley, nota per la presenza di una grande raffineria della Chevron e per essere considerata una delle città più pericolose di tutti gli Stati Uniti. Il libro serve per creare un senso di comunità, senza nascondere ai bambini la realtà di una città così difficile.
A Santa Rosa, nella Sonoma County, i bambini sembrano sicuramente più fortunati. Soprattutto quelli che si allenano ad hockey nel palazzetto del ghiaccio. Dentro il palazzetto c'è un bar, il Warm Puppy Cafè, e dalla sua vetrina interna si può vedere il campo di gioco. Per oltre trent'anni, praticamente tutti i giorni, ad un tavolino del Warm Puppy si sedeva sempre lo stesso uomo, che mangiava le stesse cose a colazione e a pranzo: Charles M. Schultz, detto Sparky, il papà dei bambini più famosi di sempre, i Peanuts. Un viaggio quotidiano di poche centinaia di metri per raccontare storie e sentimenti universali.
A fianco di quella che ora è la Snoopy's Home Ice, c'è il "Charles M. Schulz Museum and Research Center", dove è stato ricreato lo studio di Sparky e dove è possibile ammirare, oltre alle tavole originali del fumetto, un enorme murale raffigurante Lucy mentre regge il pallone per Charlie Brown. Il murale è stato realizzato da un artista giapponese, che ha utilizzato 3588 strisce dei Peanuts stampate su altrettante piastrelle in ceramica. Nel museo ci sono anche alcune memorabilia. In una di queste si vede Schultz che riceve da Andreotti il titolo di Commendatore e la Croce al Merito. Nel suo studio si vede una fotografia con l'Ambasciatore americano a Roma e, alle spalle, Margherita Boniver. Senza parole. Il museo ospita anche il frutto della collaborazione tra Schultz e Christo, con la cuccia di Snoopy impacchettata secondo lo stile inconfondibile del più famoso artista bulgaro di sempre. Bellissima.
E bellissima è pure Zia Helen, nei suoi inimmaginabili novant'anni. La casa di riposo in cui vive è proprio a fianco del museo dedicato a Schultz. Zia Helen è la sorella del nonno materno di Rachel. Dopo aver pranzato insieme a noi, al figlio, alla nuora e un nipote, ci porta nella suo piccolo appartamento. Alla porta c'è uno stendardo che ricorda l'imminente Hannukah, una delle più importanti feste ebraiche. Il figlio le ha regalato una Menorah elettrica, per semplificarle la vita ed evitare i rischi delle candele accese. A Zia Helen piace scattare fotografie, ma piace soprattutto collezionarle. Nella sua camera da letto ci mostra un muro dove sono appese le immagini di tutta la famiglia, dagli anni trascorsi nelle Filippine, dopo la fuga dalla Polonia, durante la Seconda Guerra Mondiale, e la liberazione da parte dei soldati americani, fino al matrimonio dell'ultimo nipote, pochi mesi fa.
Sono quelle fotografie la casa di Zia Helen.

P.s. Sono sicuro che a Strambino qualcuno dirà: "Basta un viaggio di poche centinaia di metri per raccontare l'universalità? Lo sapevo già". Si, va bene. Ma l'alba del traghettatore sul Gange?

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